Il Castello di Valsinni
di Anna Conte
Quando eravamo piccoli i nostri genitori ci raccontavano le favole che avevano come protagonisti principi azzurri, principesse e castelli e la fiaba cominciava, immancabilmente, con:
“C’era una volta” e finiva con …”vissero felici e contenti”…
Purtroppo nella realtà non è sempre così… La protagonista principale dei fatti sanguinosi e tragici, che mi accingo a raccontare, è Isabella Morra e si svolsero nel cinquecento in Basilicata, nel paese di Valsinni, allora conosciuto con il nome Favale.
Percorrendo la strada statale Sinnica, che collega l’autostrada Salerno – Reggio Calabria alla statale 106 ionica, spicca il castello della famiglia Morra che sovrasta il piccolo abitato, aggrappato e conficcato nelle falde del ripido colle. Il castello scosceso su tre lati è inaccessibile… del quale rimane in piedi la costruzione centrale e tutt’intorno ci sono i ruderi delle altre smantellate. Dal lato dell’ingresso si vede il fiume Sinni, all’epoca già Siri, che ha qui il corso più stretto, e si gonfia torbido e impetuoso e il suo mormorio accompagna la vista dei monti tra i quali è rinserrato. Dai restanti lati è possibile ammirare l’immensa vallata situata ai suoi piedi. A quei tempi il paese era costituito da stradine sterrate e piccole dimore abitate dalla gente umile e povera del posto.
Oggi il paese è incivilito e turistizzato, grazie alla notorietà arrecatagli da Benedetto Croce che si recò in quel luogo perché interessato alla poetessa Isabella Morra, alla quale diversi anni fa venne intitolato un “Parco Letterario”.
Il Castello a sua volta è stato restaurato e in parte ricostruito dall’avvocato Rinaldi, suo attuale proprietario, che ha cercato di ridargli le sembianze di un antico maniero con delle scelte architettoniche alquanto discutibili. La sua costruzione infatti risale ai primi del Mille. Le stanze del castello sono allestite in modo da rievocare i tempi in cui il castello era abitato.
Per chi volesse visitarlo, Valsinni è in provincia di Matera, a 76 Km dal capoluogo e a 123 da Potenza e conta circa 1900 abitanti che vivono ancora di agricoltura e pastorizia. Vi è anche un’antica tradizione di mugnai, il cui simbolo è il Molino di Palazzo Mauri, dove sono conservate grosse macine di pietra.
Storicamente Valsinni prima di diventare dimora della famiglia Morra, casato campano proveniente dall’alta Irpinia, lo era stato dei Sanseverino, principi di Salerno… Isabella nel suo canzoniere ci ha lasciato un ritratto del suo paese e del territorio circostante dominato dalle tinte fosche: una scura acqua forte incisa dall’acido della sua depressa malinconia. Nè meno sgradevole dipinge i suoi abitanti e soprattutto i suoi fratelli, abbandonati dal genitore, infiacchiti dall’ozio, privati dell’antica gentilezza aristocratica degli antichi avi.
Isabella parla di “ vili ed orride contrade”, (Rime I) di “ valle inferna, fiume alpestre, ruinati sassi, caverne, fere, orride ruine, selve incolte, solitarie grotte” (Rime VII). E quando l’umore è buono e si addolcisce, di “ un alto monte ove si scorge il mare”(Rime III).
La dimora abituale dei Morra era a Napoli, nel quartiere di seggio di Capuana, al quale la famiglia apparteneva. La famiglia si era dovuta trasferire momentaneamente a Favale per motivi di guerra e per l’epidemia di peste che aveva colpito Napoli nell’assedio del Lautrec, e qui dovette poi rimanere in seguito all’esilio di Giovanni Michele, padre di Isabella, che aveva abbracciato, come tanti nobili, il partito dei francesi. Giovanni Michele proveniente dai circoli culturali di Napoli, aveva avuto cura di badare alla formazione culturale dei propri figli e soprattutto a quella di Isabella e di Scipione che erano i più dotati intellettualmente. Dopo l’esilio del padre, a Favale rimasero la moglie e la madre, Luisa Brancaccio, col primogenito e con gli altri figliuoli.
Isabella aveva studiato insieme a Scipione e componeva versi che la resero nota anche oltre la cerchia in cui viveva.
Poco lontano da Favale, nel castello di Novasiri, già ai tempi Bollita, si recava spesso il poeta spagnolo don Diego de Castro, che aveva ricevuto tale feudo dalla moglie Antonia Caracciolo, che dimorava in quel luogo mentre egli sosteneva il carico di regio castellano della rocca di Taranto. Accadde che i fratelli vennero a conoscenza di una corrispondenza di versi che il De Castro, in nome di sua moglie, aveva inviato ad Isabella per mezzo di un pedagogo. I signori di Valsinni erano di parte francese e ancor più soffrirono delle voci che riguardavano la vita sentimentale della sorella, legata ad un cavaliere della fazione opposta. I fratelli sorpresero le lettere ancora chiuse nelle mani di lei, che affermò venirle dalla Caracciolo, come le era stato detto. Questo non frenò la ferocia e la barbarie dei fratelli che misero crudelmente a morte il pedagogo e poi uccisero a pugnalate la sorella innocente. Morta la sorella , si volsero con tutte le loro forze a procurar la morte del De Castro che, conoscendo la natura di questi si munì di precauzioni facendosi accompagnare da una buona scorta di gente a cavallo e a piedi quando si recava a Taranto da Bollita a visitare la moglie. Ma nonostante tutto non potè evitare il fato e di lì a poco gli venne teso un agguato e fu lasciato morto con molte ferite, mentre quelli della scorta si diedero alla fuga.
Il vicerè Pietro di Toledo si accese per questo orribile delitto e cercò di catturare i tre fratelli che riuscirono a fuggire e si rifugiarono in Francia.
Non si sa se questa delicata storia, fatta di sentimenti gentili e scambiata sul filo della poesia e delle rime petrarchesche in cui Diego e Isabella si cimentavano, avesse veramente forti significati amorosi. Certamente Isabella soffriva di solitudine in quel luogo distante dai luoghi di cortigiani e cantori. La baronessa era ottima poetessa, come anche affermò Benedetto Croce, e stupisce che ella riuscisse a tenere lo stile letterario del tempo senza contatti con accademie e salotti letterari.
I versi di Isabella sono tristi e talvolta alludono alla morte, che la giovane vede vicina. In una poesia chiede al fiume Sinni di ripetere il suo lamento, quando lei non ci sarà più.
“Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch’io sento da presso il fine amaro,
fa’ tu noto il mio duolo al padre caro,
se mai qui ‘l torna il suo destino acerbo.
Dilli com’io, morendo, disacerbo
l’aspra fortuna e lo mio fato avaro,
e, con esempio miserando e raro,
nome infelice e le tue onde io serbo.
Tosto ch’ei giunga a la sassosa riva
(a che pensar m’adduci, o fiera stella,
come d’ogni mio ben son cassa e priva!),
inqueta l’onda con crudel procella,
e dì: – M’accrebber sì, mentre fu viva,
non gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella.
Il castello di Valsinni è intriso di questa tragedia. Visitando le stanze del castello si avverte, forte, la presenza di Isabella che alcuni affermano esservi sepolta… Ci si sente proiettati in un’altra era, si ha la sensazione di vivere il dramma di questa donna coraggiosa che nelle poche rime che ebbe il tempo di scrivere rivendicò il suo diritto alla vita, all’istruzione, all’amore, all’esigenza di essere artefice del suo destino, contro ogni logica del tempo e ogni sopruso.
“Isabella soccombè sotto la mannaia dell’oscurantismo Medievale, che nella Lucania del tempo tardava a lasciare il posto al Rinascimento che avanzava. E morì non per mano di estranei ma per mano di coloro che avrebbero dovuto proteggerla. Ma Isabella non fu l’unica donna a pagare questo pegno, perché quasi in ogni paese della Basilicata vi sono castelli che narrano di fatti e misfatti, di assassini e soprusi di ogni genere, di donne impotenti e di uomini prepotenti. Isabella Morra nel suo confino fisico e culturale di Valsinni fu antesignana di quella dignità e di quella concezione del ruolo della donna nella società che molti uomini ancora oggi tardano a riconoscere.
© copyright Anna Conte 2014
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