Articolo pubblicato su IUA n° 4, Anno I, Giugno 2014
È uno di quei sabati di maggio di primavera inoltrata sul calendario, ma arretrata sul fronte climatico. Una calotta grigia nasconde il cielo e i voli delle rondini; germoglia il verde della campagna del parco delle Groane dove mi porta l’indicazione stradale di villa Arconati, frazione Castellazzo nel comune di Bollate vicino a Milano.
Una primavera che si maschera d’ estate quando lungo la strada che si apre su villa Arconati il frinire dei grilli accompagna la visita al luogo sconosciuto. Una dimora nobiliare, che ricorda nella sua architettura la reggia di Versailles domina la pianura antistante, mentre dietro il borgo rurale di Castellazzo quasi abbandonato, è il testimone diroccato della vita campestre , delle famiglie e delle loro vite risonanti nell’aia comune che chiamava a raccolta le vicende di quegli uomini e donne.
Anche la villa versa in cattive condizioni, sebbene alcune impalcature di restauro siano i provvisori bendaggi per una malattia dalle piaghe sanguinanti e dalle ferite profonde; un restauro parziale reso possibile dai concerti che in estate si tengono nel cortile.
Di origini secentesche è stata ultimata dalla famiglia Arconati sul finire del XVIII secolo, secondo lo stile barocco lombardo anche se più stili si intersecano nei suoi volumi.
Un luogo sospeso nella campagna in un tempo indefinito e dove il rumore della contemporaneità di Bollate resta fuori dall’antica vita contadina, segregato dalla decadenza del piccolo borgo dove ancora risiedono circa 15 di famiglie.
Abbandono, ruggine, vetri rotti, erba incolta sono i testimoni dell’incuria e della trascuratezza alla quale è andato incontro l’agglomerato di case, un tempo alloggio dei contadini degli Arconati.
Una vecchietta è seduta sotto un ciliegio, intenta ad osservare l’intrusa che fotografa e disturba la sua antica quiete, quasi rassegnazione.
Vorrei farle una foto, si rifiuta, vorrei parlarle, si ritira, come per custodire da sola il ricordo del borgo quando era vivo nei lunghi rettangoli di stalle dove le mucche muggivano e i buoi aravano i campi o dove nell’aia starnazzavano gli animali da cortile e là dove si faceva il pane nel forno comune.
Ora il silenzio assordante dell’inerzia avvolge le case diroccate dalle persiane rotte o al più semiaperte. Qualcuna, in uno stato migliore, rivela che lì dentro una sorta di vita ancora c’è, così come la rosa rampicante che sta sbocciando o l’edera che forma un pergolato sotto le finestrelle sono la timida fiammella di un barlume di speranza.
I nomi delle strade Via Corte Nuova, via Corte Grande, via Corte del Fabbro si incrociano all’altezza degli archi comunicanti con i cortili a rivendicare la sopravvivenza del nome borgo. Le lapidi bianche denotano e circoscrivono i punti cardinali della struttura, che tanto somiglia alle cascine lombarde e alla storia di quell’albero degli zoccoli al quale Ermanno Olmi si è ispirato nel suo omonimo film.
Mentre mi allontano per risalire in macchina e tornare negli industriosi comuni lombardi un cane meticcio di bella stazza abbaia e si ferma all’ingresso del borgo, non so se per dirmi di restare o farmi andare.
© copyright Massimilla Manetti Ricci 2014
Fotografie di Massimilla Manetti Ricci
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Castellazzo di Bollate, il borgo dimenticato nel parco delle Groane by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.