Articolo pubblicato su IUA n° 9, Anno III, Settembre 2016
A tu per tu coi luoghi che videro le epiche imprese di Alpini e Kaisershutzen
Di Gianni Marucelli
È una bella escursione, quella che ci attende, nel cuore del Parco Nazionale dello Stelvio. La mattinata si presenta stupenda, mentre di buon’ora ascendiamo le pendici boscose della Val del Monte, laterale della Val di Pejo (TN). Ben presto l’azzurro intenso del Lago Palù, un bacino artificiale incastrato tra altissime catene montuose contrapposte, spicca tra il verde delle conifere; lo lasciamo in basso, mentre i larici si fanno più radi e i rododendri, che a valle sono già spogli, si presentano carichi di fiori.
Abbiamo oltrepassato quota 2000, e tutto è tranquillo, il silenzio è rotto solo dal fragore dei torrenti che scendono impetuosi e dal gracchiare dei corvi e delle ghiandaie. Lontano, si ode lo scampanellio dei campanacci delle mucche sui pascoli alti. Nessun altro escursionista in giro, e neppure i pastori delle malghe.
Eppure, se tornassimo indietro nel tempo di 98 anni, questo piccolo paradiso si trasformerebbe di colpo: il sibilo delle marmotte tacitato dalle raffiche delle mitragliatrici, ogni voce della natura sovrastata dal rombo delle artiglierie da montagna e dalle esplosioni degli schrappnel.
Metà agosto 1918: da circa tre anni si fronteggiano ad alta quota, al confine tra Lombardia e Trentino, che coincide anche con quello di Stato tra Regno d’Italia e Impero austro-ungarico, gli Alpini italiani da un lato e le truppe da montagna austriache, Kaiserjager e Landshutzen.
Qui bisogna fare una premessa: gli Alti Comandi delle due parti non hanno dato inizialmente molta importanza a questo settore estremo del fronte, sia perché sono concentrati sulle manovre nelle pianure, sugli altopiani, sulle rive dei grandi fiumi, come l’Isonzo, il Tagliamento, il Piave, sia perché sono convinti che i passi alpini possano facilmente essere presidiati dalle fortificazioni che all’uopo sono state costruite. Inoltre, nella storia non si è mai combattuto oltre i duemila metri, e anche i medici ritengono fisiologicamente impossibile che dei soldati, pur specializzati, riescano a resistere per molto tempo, specie in inverno, alle basse temperature e alla rarefazione dell’aria. Solo dopo i primi mesi di conflitto, gli austriaci per primi si sono accorti di quanto immensa possa essere la resistenza umana, anche in condizioni terribili, oltre i 3000 metri, e di come ciò possa essere considerato militarmente rilevante. Così, hanno incominciato a occupare, con prudenza, i punti più alti del grande arco montuoso che va da Passo
dello Stelvio a quello del Tonale: da queste posizioni, tenute da pochi uomini, sono in grado di battere con le artiglierie le più basse postazioni italiane; ma gli Imperiali hanno ricevuto l’ordine perentorio di limitarsi a difendere i confini, gli italiani dovrebbero invece attaccare, e hanno il disperato bisogno di contendere al nemico le vette più alte: il Gran Zebrù, l’Ortles, il Cevedale, il Vioz, tutte cime che si spingono verso i 4000 metri, circondate da immensi ghiacciai.
Dopo tre anni di esperienza, le tecniche di sopravvivenza in quota si sono molto affinate: adesso i ghiacciai assomigliano a dei gruviera, attraversati come sono da gallerie e cunicoli scavati apposta per raggiungere la prossimità delle vette senza farsi scorgere dall’avversario, sono stati create gallerie e trincee scavate nella roccia, sono state posizionate teleferiche per il trasporto dei materiali da valle e linee telefoniche per i collegamenti tra gli avamposti e i Comandi.
Tutto ciò, però, non ha portato grandi vantaggi a nessuna delle due parti. Le vittime, morti e feriti, sono state tante, questo sì: ma si contano molti più soldati falcidiati dalle valanghe, colpiti da malattie o da congelamento, che uccisi da proiettili nemici.
In questa guerra, essenzialmente di posizione, grande importanza hanno avuto le Guide alpine e gli alpinisti “sportivi”, richiamati e spediti sulle cime a cercare di tracciare nuove vie di attacco sulle pareti più scoscese e sui ghiacciai più impervi. Il bello è che molte Guide, sui fronti contrapposti, si conoscono bene, spesso sono imparentate tra loro, e quando si incontrano, piuttosto che scambiarsi una fucilata, preferiscono bere insieme una grappa attorno al fuoco del bivacco…
Ma torniamo ai luoghi dove ora ci troviamo: appena sotto le cime che, dal Monte Vioz (mt.3670), si succedono fino al Passo del Gavia. giungiamo al Lagostiel, mt.2450, un pianoro dove, attorno a un laghetto glaciale, un gruppo di mucche pascola tranquillo. Sopra di noi, la Punta San Matteo (mt.3679), il Monte Mantello (mt. 3517), il Monte Giumella (mt.3590), delimitano verso nord (a noi invisibile) l’immenso ghiacciaio dei Forni.
Tra le truppe che le presidiavano, nell’estate del 1918, pochissimi, o nessuno, intuiva e sperava che la guerra sarebbe finita di lì a poco più di due mesi.
Comunque, il Comando italiano del Pass Gavia riteneva che le posizioni austriache attestate dall’anno precedente sulle vette del Monte Mantello e del Monte San Matteo minacciassero da vicino le nostre linee, e di conseguenza predisposero un piano per conquistarle. Così le nostre truppe avrebbero a loro volta minacciato da presso la Val di Peio, base dell’esercito imperiale, e avrebbero controllato meglio il Ghiacciaio dei Forni.
Il 13 agosto 1918 diverse compagnie di Alpini, supportate da nuclei di mitragliatrici e precedute da un intenso bombardamento di artiglieria attaccarono, attraversando il ghiacciaio, le due montagne, prendendo di sorpresa gli austriaci, che non si aspettavano un assalto da quella parte, per la grande difficoltà costituita dai crepacci. L’azione quindi ebbe successo, ed è paradossale che tra le poche vittime italiane alcuni fossero alpini colpiti dalla nostra artiglieria proprio nel momento in cui, in cima al San Matteo, stavano festeggiando la vittoria ottenuta.
Il paradosso è ancora più doloroso pensando che la conquista non venne ben sfruttata; le due vette non furono sufficientemente fortificate contro un presumibile contrattacco austriaco che avrebbe dovuto essere messo in conto. Al comando della nuova postazione sul San Matteo fu messo un giovane ma già espertissimo capitano degli Alpini, Arnaldo Berni, che aveva già mosso ai suoi superiori qualche obiezione circa il fatto che non si era pensato di occupare anche la vetta
successiva, il Monte Giumella, sgombro di nemici, cosa che lui stesso aveva cercato di fare, essendo però subito richiamato indietro.
Intanto, la sconfitta del San Matteo non era stata affatto digerita dai comandi austriaci, che ne predisposero l’immediata riconquista con grande larghezza di mezzi.
Il 3 settembre successivo, quando già gli alpini di Berni erano molto provati dalla permanenza a più di 3600 mt. di quota, senza ricevere cambio, scattò il contrattacco.
Tre giorni prima, Arnaldo Berni aveva scritto ai familiari questa ultima lettera:
“Fino ad oggi ho lavorato e faticato molto, ho dato gran parte delle mie energie e in molti momenti era solo il mio entusiasmo (che non è venuto mai meno) e lo spirito di compiere tutto il mio dovere che mi hanno sorretto; e se tutto quello che ho fatto e tutto quanto ho sofferto non sarà conosciuto io sarò ugualmente contento e continuerò sempre a dare quanto posso per il bene della patria”.
La preparazione di artiglieria che precedette l’attacco delle truppe scelte austriache fu davvero terrificante: in poche ore vennero sparati dai cannoni nemici più di 23.000 colpi.
Sotto le esplosioni, la vetta del San Matteo viene addirittura ridotta di sei metri. Chi si trova al coperto, nelle grotte di ghiaccio, viene sepolto dal loro crollo.
Verso il tramonto due compagnie di Kaisershutzen, circa 200 uomini, si mossero sulle rocce e sui ghiacci, partendo dal Monte Giumella all’attacco del Monte Mantello e del San Matteo. Erano guidate da due ufficiali esperti e coraggiosi, il Tenente Tabarelli e il Tenente Licka.
La difesa italiana fu accanita, animata dal Capitano Berni, e molti soldati nemici caddero in combattimento. Proprio nel momento decisivo, anche la galleria di ghiaccio in cui si trovavano Berni e alcuni alpini crollò sotto le cannonate. Il capitano ne ebbe le gambe sfracellate, e non potette più muoversi, sepolto da un grosso blocco di ghiaccio. Il suo aiutante, sergente Perico, fu uno dei pochi italiani a salvarsi dall’attacco, abbattendo due nemici col fucile usato come una clava e rotolando alla cieca, giù per il pendio ghiacciato. Più o meno lo stesso accadde sul Monte Mantello, dove i
nostri furono uccisi o catturati.
Un ufficiale austriaco udì le grida di soccorso del capitano Berni e tentò di soccorrerlo, ma la reazione dell’artiglieria italiana era violenta e dovette desistere.
Si concluse così la battaglia a più alta quota mai combattuta durante la prima guerra mondiale.
Per gli Austriaci fu una vittoria effimera, in quanto, esattamente due mesi dopo, il 4 novembre, si arresero all’esercito italiano.
Il corpo del capitano Berni, come quello di molti altri Alpini e Kaisershutzen, non fu mai ritrovato, nonostante le successive ricerche di parenti, amici e degli stessi ufficiali austriaci che avevano partecipato all’azione.
Guardo su, verso il San Matteo, che si staglia su un cielo limpidissimo; guardo la sua vedretta che ancora brilla candida al sole, ma che rispetto a cento anni fa si è ridotta di molto.
Penso ai pochi corpi semimummificati che negli ultimi vent’anni i ghiacci, sciogliendosi, hanno restituito, e che ora giacciono sepolti, senza nome, nel piccolo cimitero di guerra austriaco della chiesetta di San Rocco, poco sopra a Peio.
Penso, ma non giungo ad alcuna conclusione, se non questa: quei caduti di una guerra lontana si sono battuti con coraggio, contro avversari che rispettavano e che temevano.
Non contro uomini, donne e bambini inermi.
Sia loro lieve la terra – o il ghiaccio – dove riposano.
Agosto 1918: la battaglia più alta della Prima guerra mondiale by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.