Articolo pubblicato su IUA n° 8, Anno III, Settembre 2016
È una delle regine del Trentino occidentale, anche se il suo nome è più conosciuto al grande pubblico per la bontà delle acque minerali che per l’importanza turistico-alpinistica.
Situata al confine del Trentino con la Lombardia, raggiungibile attraverso il passo del Tonale, la Val di Pejo è una delle due vallette laterali della Val di Sole, insieme alla Val di Rabbi.
Siamo nel territorio del Parco Nazionale dello Stelvio, sulle pendici meridionali del massiccio Ortles-Cevedale, con i suoi ghiacciai e le sue vette che sfiorano i 4000 metri.
Il paesino di Pejo, cui si riferisce
questa ‘cartolina’, si trova alla testata dell’omonima valle, ad un’altitudine di 1584 metri. I pegaesi (così si chiamano i suoi abitanti) si vantavano, ai tempi dell’impero austro-ungarico, di risiedere nel comune più alto di tutta la monarchia: non sappiamo se ciò sia vero, comunque, se avevano quel record, lo hanno perduto nel 1918, nel momento dell’annessione all’Italia, che annovera centri abitati assai più elevati (il Sestriere, ad esempio, è primo con i suoi 2000 e passa metri).
Se non per l’altitudine, Pejo detiene comunque lo scettro di uno dei paesi alpini più caratteristici e antichi. Cenno della sua esistenza lo troviamo in alcuni documenti risalenti al secolo XIII, ma gli scavi archeologici hanno dimostrato che questa località era abitata anche in epoca preromana. La posizione privilegiata, alla confluenza di due minori vallette (la Val del Monte e la Val de Lamare), consentiva ai suoi abitanti di controllare soprattutto i commerci con la Valtellina e la Valfurva, attraverso ardui valichi alpini, ancora oggi destinati ad essere percorsi da chi possiede buone gambe e fiato da vendere: il Passo del Montozzo e il Passo della Sforzellina (metri 3000).
Per secoli la sopravvivenza, qui, fu comunque assicurata da una scarsa agricoltura di montagna (segale e atre piante resistenti ai rigidi inverni; la patata venne coltivata a partire dalla seconda metà del settecento), dallo sfruttamento del bosco e, soprattutto, dall’allevamento di bovini e ovini. La casa tradizionale, qui come altrove, era composta al piano terreno dal cortile e dalle cantine, deposito per attrezzi e cibarie; ai piani superiori dalla cucina e dalle altre stanze. La prima era caratterizzata da un grande focolare aperto, rialzato dal pavimento e sormontato dalla cappa, da cui pendeva la catena (segosta), sostenente al fuoco le pentole di bronzo (lavegi). Ai lati, due panche in legno dagli alti schienali, dove sedere a scaldarsi (bancal).
I pavimenti erano di calcestruzzo, alle pareti annerite dal fumo pendevano i vari arnesi della cucina. Non esistendo condutture idriche, l’acqua veniva portata dalle donne dalla fontana in secchi di rame bilanciati sulle spalle da un legno ricurvo (bagilon). La stanza da letto dei padroni era pavimentata in legno, con le pareti anch’esse foderate di assi di conifera (abete rosso, larice o cembro). Essa era riscaldata d’inverno da una grande stufa in cotto (fornel de ole). Il mobile principale era l’alto letto coniugale, sotto il quale durante il giorno si custodiva il lettino per i bambini (cariola). I vestiti e la biancheria erano custoditi nella cassapanca, spesso intagliata, sopra la quale si poneva la culla per i neonati.
Dalle finestre, di piccole dimensioni, anche per evitare la dispersione di calore, trapelava poca luce.
Annesso all’abitazione c’era il maso, un rustico in muratura al piano terreno e nei cantoni del primo piano, ma per il resto in legno. In basso, si accedeva all’aia o tabià, dove si entrava con il carro; a fianco il fienile e una o due stalle; sopra l’aia vi erano uno o più piani dove si stendeva a seccare l’erba e si custodiva la paglia dei cereali.
È facile immaginare quanto in questo contesto, sia stata dura la vita per chi non fosse un ricco notabile.
Il pane di frumento era pressoché sconosciuto e riservato soltanto agli ammalati gravi. Si utilizzava quello di segale o d’orzo, tipi di pane che al giorno d’oggi sono tornati in auge e venduti a caro prezzo. Per companatico si utilizzavano i latticini, come la ricotta (poina) e il formaggio (casolèt). La farina di granturco venne introdotta molto più tardi. Le carni, salate o affumicate, si consumavano solo nei giorni festivi.
Oggi, dopo che, anche in tempi abbastanza recenti, (1970) il paese ha subito devastanti incendi, facili a estendersi per l’ampio uso del legname nelle costruzioni, a Pejo convivono e si armonizzano graziose case costruite soprattutto negli anni ’60 e ’70, con il boom dell’attività turistica ed edifici tradizionali che ancora conservano le primitive strutture.
Il villaggio si stringe ancora, con i suoi vicoli caratteristici, intorno alla gotica chiesetta di San Giorgio, affiancata dal campanile eretto nel 1489, sulla cui facciata campeggia una gigantesca raffigurazione di San Cristoforo, attribuita ai Baschenis, celebri artisti locali.
Duecento metri e circa un chilometro più in basso, il moderno Centro Termale di Pejo Fonti continua a dispensare cure idropiniche, e a essere base di partenza del sistema degli impianti di risalita che conduce fino a 3000 metri, poco sotto la vetta del Monte Vioz (m.3680).
Il fascino delle foreste e delle cime che fanno corona alla valle e che per gran parte pertengono al Parco Nazionale dello Stelvio, ve l’abbiamo già descritto in precedenti articoli.
Chiudiamo con una notazione faunistica: al mattino, volgendo gli occhi al cielo potrete osservare il volo maestoso dell’aquila e, da qualche tempo, quello ancora più imponente dell’avvoltoio degli agnelli, il più grande volatile del continente europeo, reintrodotto da non molti anni.
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