Articolo pubblicato su IUA n° 8, Anno III, Settembre 2016
Dopo una vita trascorsa a pensare come fosse il paese natio del mio nonno materno sono finalmente giunto a Stia, in provincia di Arezzo.
Tutto quel che sapevo era che nei dintorni vi nasceva il fiume che bagna Firenze.
Come tutti i paesi dell’Appennino anche in questo si trovano moltissime testimonianze storiche, la prima cosa che più mi ha incuriosito è stata “Il Museo dello Sci” dove troviamo tre sezioni:
– le tradizioni di vita sulla montagna del Casentino,
– lo sviluppo dello sci, come attrezzo, dagli inizi del ‘900 ai giorni nostri,
– la storia dello sci come sport agonistico.
Vi ho trovato centinaia di sci di ogni foggia ed epoca, moltissimi di epoche precedenti la pratica dello sci come “sport”, o meglio come svago di fine settimana o vacanziero. Lo sci di riferimento è quello praticato dalla gente che lo usava per spostarsi sui territori innevati quando ancora l’auto non esisteva. Lo stesso dicasi per slittini ed altre attrezzature per muoversi sulla neve. Vi sono anche calzature da sci d’epoca e contemporanee, tipici abbigliamenti, ed anche sci più moderni oltre ad altri particolari di equipaggiamento, come i diversi tipi di racchette da neve.
Tuttavia parlare del “museo dello sci” sarebbe restrittivo, la struttura ospita anche una moltitudine di altre cose tutte legate alla civiltà contadina e alla lunga storia del territorio toscano.
Vi troviamo, infatti, il Museo del Bosco e della Montagna che a Stia, come cita l’apposito pieghevole de “L’EcoMuseo del Casentino, intende promuovere la conoscenza e il rispetto della montagna, delle sue caratteristiche e dei suoi valori storico-antropologici-ambientali, nella prospettiva della loro conservazione e del loro sviluppo”:
Vi è “La collezione ornitologica Carlo Beni” che consta di 520 esemplari di 176 specie di uccelli rappresentativi dell’avifauna esistente sul territorio casentinese all’epoca della sua costituzione, realizzata da Carlo Beni verso al fine dell’Ottocento. La collezione risulta di notevole valore didattico, stante la difficoltà di osservare direttamente moltissimi di questo esemplari sul territorio.
Ma oltre a ciò vi sono moltissime altre curiosità.
Vi si trova un marchingegno che, come un orologio a cucù, con l’uso di due pesanti contrappesi e alcune appendici snodabili, aziona un girarrosto, realizzato da un gruppo di giovani che si è ispirato ai disegni di Leonardo da Vinci.
Al museo è anche possibile trovare una vastissima e rarissima collezione di serrature di tutte le epoche, principalmente medievali, tutte realizzate a mano da abilissimi artigiani.
Vi è poi un enorme collezione di attrezzi di uso agricolo che consente di vederne l’evoluzione nel tempo; ma vi sono anche innumerevoli strumenti dei quali si è da tempo persa la memoria e che rinvia a condizioni di vita che per l’uomo contemporaneo sarebbero impensabili.
Non ho, personalmente, competenze tecniche e storiche per valutare la reale importanza di tutto ciò, ma in 76 anni di vita non ho mai avuta l’occasione di vedere una collezione così ricca e completa, tra l’altro curata da una persona che sa raccontarci tutto di ciascun pezzo che ci mostra.
Mi rimane solo il timore che, una volta scomparse le persone che attualmente se ne curano, tutto ciò possa finire dimenticato in qualche magazzino.
Tuttavia a Stia troviamo anche altre interessanti presenze storiche: Il Lanificio di Stia (chiuso nel 1985); la Chiesa di Santa Maria Assunta risalente al XII sec. con alcune pregevoli opere d’arte, come Il trittico dell’Annunciazione e Santi – di Bicci di Lorenzo (1414); o una Madonna con Bambino di scuola del Cimabue; una Madonna col Bambino di Andra Della Robbia; e diverse altre opere del XV sec.
Intorni a Stia possiamo trovare il Castello di Porciano (X sec.), Santuario di Santa Maria delle Grazie (XV sec.), Mulin di Bucchio e tantissime altre occasioni di grande interesse, come il Museo della Lana.
Insomma, un angolo di Toscana, quello dove nasce l’Arno, ricco di storia e di tradizioni che piace vedere sopravvivere nel tempo per conoscere le nostre radici.
Guido De Marchi
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