Articolo pubblicato su IUA n° 5, Anno III, Maggio 2016
Il risultato della giornata referendaria del 17 Aprile 2016 non mi ha lasciato sorpreso, pur essendo io un fautore del SI; anzi, credo addirittura che la percentuale dei votanti (il 31 e rotti percento) non sia stata poi nemmeno tanto bassa. Infatti, il referendum è stato boicottato in ogni modo: dal Premier a Confindustria, dai partiti di governo a buona parte di quelli dell’opposizione, per finire a settori della CGIL, in tanti si sono schierati per l’astensione o per il NO. Chiaramente, si deve distinguere tra le due posizioni, anche se, nella pratica, il non-voto è equiparabile al voto negativo.
Quindi, per riprendere il mio incipit, non sono, come si dice, rimasto di stucco di fronte al fallimento del referendum sulle Trivelle, e non ho nemmeno corso il rischio di strapparmi i capelli, non avendone neppure uno: ma, assistendo alle dichiarazioni TV di Matteo Renzi alle ore 23 del 17 Aprile, mi sono arrabbiato di brutto, cosa che non mi succede spesso.
Aggiungerò che nemmeno i discorsi del più bieco Berlusconi mi hanno mai mandato tanto in bestia.
Il Presidente del Consiglio, mostrando una (legittima) soddisfazione per un esito da lui tanto auspicato, ha poi inanellato, con la consueta arroganza, una serie di periodi banali, quando non apertamente offensivi e chiaramente menzogneri, in cui ha trattato tutti coloro che si sono impegnati nell’attività pro referendum come “demagoghi”, o idioti, o entrambe le cose.
Il suo “indice di democrazia”, e la questione è davvero preoccupante, ha sfiorato livelli molto vicini allo zero. Soprattutto se teniamo conto che Matteo Renzi, nella poltrona che occupa, non lo ha mai legittimato nessun voto popolare: e troppo spesso la gente tende a dimenticarsene.
A mente fredda, nei giorni successivi, ho ragionato sul referendum: appare ormai chiaro che questo strumento di democrazia diretta, così come lo hanno concepito quasi 70 anni fa i Costituenti, non è più attuale; il famoso quorum del 50% degli aventi diritto al voto (più uno) condanna qualsiasi referendum abrogativo a un fallimento pressoché certo. I correttivi non sono semplici, a meno che, non si ripristini l’obbligatorietà del voto (diritto/dovere), provvedimento sicuramente antistorico, e lontano dalla sensibilità dei cittadini. Più facile correlare il quorum alla partecipazione effettiva al voto delle ultime tornate di elezioni politiche, ad esempio la media delle percentuali dei votanti agli ultimi tre appuntamenti del genere: si arriverebbe, oggi come oggi, ad un quorum vicino al 40%, accessibile ma tale da garantire l’espressione corretta della volontà popolare. Non sono però un costituzionalista, e qui mi fermo.
Però, una soluzione per ridare al popolo almeno l’illusione di poter contare qualcosa, in questo strano Paese dove tutto e il contrario di tutto può essere detto e purtroppo fatto, nelle stanze mai così chiuse del potere politico ed economico, la si deve trovare.
Anche il più paziente e bastonato degli asini, alla fine trova la forza di scalciare.
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