Articolo apparso In L’Italia, l’Uomo, l’Ambiente n° 8, Anno VIII, Settembre 2021
La pandemia del COronaVIrus Disease 19, ormai comunemente noto come Covid-19, che provoca una malattia respiratoria acuta da SARS-CoV-2, ha portato nel mondo intero un’autentica rivoluzione sociale e, in parte, persino tecnologica. Apparsa a Wuhan, in Cina, ad aprile 2019, alla fine del 2019 è divenuta un problema di rilevanza internazionale, ha dimostrato tutta la sua virulenza nel 2020 e solo nel 2021 si è riusciti ad arginarla parzialmente mediante una campagna di vaccinazione imponente, con vaccini, peraltro, non privi di effetti secondari.
La pandemia ha comportato dapprima iniziative di isolamento di alcune zone e quindi lockdown sempre più estesi. La necessità di riprendere le principali attività economiche e sociali nonché di dare respiro alle strutture sanitarie sovraccariche ha portato a regole di igienizzazione, distanziamento sociale e utilizzo di protezioni come le famose mascherine chirurgiche.
Abbiamo dapprima assistito a momenti di attesa e speranza, per un fenomeno che si credeva ingenuamente di breve durata, con espressioni di unità e solidarietà che si esprimevano nei canti dalle finestre e dai balconi, nell’esposizione di bandiere nazionali, di arcobaleni simboli di speranza e stendardi con scritte propiziatorie tipo “andrà tutto bene”, come a dirsi che non poteva andare davvero tutto bene ma si voleva credere il contrario. Ci siamo stupiti delle espressioni di orgoglio nazionale che parevano ormai riservate solo alle competizioni sportive e questa possiamo forse considerarla come uno dei primi cambiamenti in atto. Il prolungarsi del fenomeno ha fatto sì che alcuni comportamenti sociali si stiano radicando. Si pensi per esempio al diradarsi dell’uso degli abbracci come saluto o addirittura all’abbandono della stretta di mano, di origini storiche. I geroglifici egizi la testimoniano ben 5.000 anni fa. A Babilonia, nel 1800 a.C. si stringeva la mano alla statua del dio Marduk in segno di rispetto. L’uso fu poi trasferito ai re Assiri per poi estendersi.
In Grecia e a Roma ci si salutava stringendosi reciprocamente il polso. Quando si incontrava un estraneo, infatti, se non si voleva combattere, si riponeva la daga nel fodero e ci si stringeva la mano a dimostrazione che non la si sarebbe estratta. L’uso della stretta di mano, dunque, ha perso il significato originario in un mondo come il nostro in cui le armi non sono così comuni e in cui il saluto è più per amicizia che per rispetto, ma pare strano il perdersi di un gesto così antico. Spero si adottino saluti alla giapponese piuttosto che le ridicole toccate di gomito usate in questi mesi. Singolare appare poi l’uso diffuso delle mascherine chirurgiche. L’idea di girare con il volto coperto è qualcosa di alieno alla cultura occidentale, basti pensare alle polemiche sulle donne islamiche velate (vedi il divieto della hijab in Francia per le minorenni), con tutte le considerazioni sul diritto di vedere il volto delle persone, le ragioni di sicurezza per poter identificare ciascuno, connesso anche alla diffusione dei sistemi di videosorveglianza, per i quali il riconoscimento e l’individuazione delle persone appare vanificato dall’uso diffuso di maschere che coprono parte del volto. Mi pare chiaro che con il diffondersi di questo nuovo “velo igienico” tutte le polemiche in merito al divieto di nascondere il volto abbiano ora perso gran parte delle loro motivazioni, restando una tematica che vede le sue ragioni ormai quasi solo in approcci razzisti e di scarsa tolleranza.
Si dirà che, una volta posto sotto controllo il covid-19, si farà presto a tornare ai vecchi usi. Credo, invece, che non solo si sia ancora abbastanza lontani dall’aver risolto il problema specifico, ma che questo sia stato solo una prima avvisaglia di quello che potrà avvenire in futuro. La diffusione di virus sempre nuovi appare, infatti, come una inevitabile conseguenza della globalizzazione e della diffusione dei viaggi di massa di persone e beni. Oltretutto è mia opinione personale che la velocissima perdita di biodiversità che stiamo causando al nostro pianeta potrà essere ulteriore motivazione per far sì che i virus, che mutano velocemente per loro stessa natura, non trovando altre specie animali in cui proliferare, ben facilmente si adatteranno a quella maggiormente diffusa, distribuita e itinerante per il pianeta: noi. Ci attendono quindi con pressoché assoluta certezza nuove pandemie e non è detto che quest’ultima sarà la peggiore. Occorre parlare quindi di un’ulteriore rivoluzione attivata dalla pandemia: l’ammodernamento e il potenziamento dei sistemi sanitari. Il covid-19 è stata un’ottima palestra per imparare ad affrontare eventi catastrofici sanitari quali non ricordavamo da esattamente un secolo, quando l’influenza spagnola causò nel 1918-20 decine di milioni di morti nel mondo, probabilmente cinquanta milioni. Che sia passato da allora un secolo non deve neppure darci l’illusione che questo sia il ritmo in cui le pandemie potranno manifestarsi, perché il mondo è mutato ed è proprio questa mutazione a generarle e a renderne più probabile e letale la diffusione.
Questa rivoluzione, che non saprei bene come chiamare, ma che vorrei definire “virale” sia per la causa alla sua base sia per la sua capillare e inarrestabile diffusione, ha portato a effetti clamorosi sul mondo del lavoro.
Si pensi, innanzitutto, alla diffusione dello smart-working, la possibilità di lavorare da casa per milioni di impiegati e professionisti, ma anche agli effetti su ampi settori economici.
La necessità di evitare contatti negli uffici ha portato a un’esplosione del fenomeno dello smart-working, modalità lavorativa che in Paesi come l’Italia appariva ancora come sperimentale solo nel 2019. Questo ha portato a un’informatizzazione accelerata. Molte aziende hanno potenziato in poche settimane le dotazioni di apparecchiature portatili (PC, tablet, smartphone…) del proprio personale. I sistemi di videoconferenza, già diffusi da anni, sono divenuti di uso comune. Improvvisamente gli incontri, le riunioni, i meeting, i briefing o come li volete chiamare, che parevano indispensabili e che ci costringevano a viaggi in giro per l’Italia, l’Europa e il mondo, sono stati sostituiti da call conference fatte da casa o dagli uffici, con l’ausilio di un PC con webcam, risparmi colossali di ore di lavoro, spese di viaggio (treni, auto, pullman, aerei, alberghi, pranzi e cene…) e tempi organizzativi. Le nostre case stanno mutando conformazione per accogliere postazioni di lavoro. Il tempo lavorativo dello smart-worker è mutato radicalmente. Se prima quando si doveva partecipare a una riunione, occorreva sommare al tempo del meeting anche quello per lo spostamento, magari fuori città, l’attesa degli altri partecipanti, le chiacchiere, ora ci si collega all’ultimo e nei tempi morti, se si vuole, si può continuare a lavorare. L’efficienza è aumentata in modo incredibile. La possibilità di accedere direttamente ai PC dei colleghi rende possibili scambi di informazioni più efficienti durante le conversazioni con gli strumenti di videoconferenza.
Il lavoratore (o almeno molti degli smart-worker) ha così affrontato gli ultimi due anni in una sorta di apnea, lavorando quasi senza posa, senza più pause caffè con i colleghi, senza chiacchiere in ufficio e in corridoio, chiuso in casa propria, attento a stare sempre collegato e pronto a rispondere alle infinite sollecitazioni provenienti dal PC e dallo smartphone.
Eppure anche per il lavoratore ci sono dei vantaggi. Può stare vicino ai propri familiari, può fare piccoli lavori in casa negli intervalli, può ricevere pacchi a tutte le ore, può vestirsi come meglio crede, può risparmiare sui pranzi fuori casa e sull’abbigliamento e persino il suo orario di lavoro, sebbene dilatato, è divenuto più flessibile. Certo, il fatto che ci sia gente che lavora a tutte le ore fa sì che messaggi ed e-mail continuino ad arrivare di giorno, di notte e anche nel fine settimana.
Come potete pensare che si torni indietro?
I vantaggi per i lavoratori sono relativi, ma l’illusione di una maggior indipendenza non è poca cosa. Quelli per le aziende sono enormi. Se il lavoratore prima si poteva considerare una specie di moderno schiavo part-time ma che staccava a fine lavoro (o C.O.B. – Closure Of Business, come dicono gli anglofili), ora diviene una risorsa a tempo ininterrotto, facendosi fatica a distinguere i momenti lavorativi da quelli di ferie.
Si aggiungano poi i vantaggi logistici. I lavoratori di questa moderna, anomala rivisitazione del cottimo non hanno più bisogno di uffici, con risparmi per le imprese in termini di affitti o acquisto di immobili. Da tempo si cercava di passare al cosiddetto paperless, evitare cioè, nel rispetto dell’ambiente e dei budget, lo spreco o addirittura l’uso della carta. Lo smart-worker, spesso privo di una stampante efficiente o comunque costretto a sostenerne i costi di stampa in proprio, è divenuto improvvisamente ligio a questo approccio. La diffusione della firma digitale, che si affianca a quella della PEC, la Posta Elettronica Certificata, ha contribuito a eliminare ulteriormente esigenze di scambi cartacei.
Pare una strada a senso unico da cui non torneremo indietro e per la quale, semmai, andremo ancora più avanti. Prima si accennava al fatto che lo smart-worker può ricevere facilmente pacchi a casa. Gli impiegati ricevevano pacchi personali anche in alcuni uffici, ma era cosa ben diversa dal riceverne a casa propria. Si possono ricevere beni più grandi o deperibili. Si possono ricevere più spesso, non dovendo render conto a nessuno. Se a questo si aggiunge la difficoltà a spostarsi durante i lockdown o altre forme di chiusura delle attività commerciali, appare ben comprensibile il successo clamoroso di quello che chiamavamo Business to Consumer ma che ormai non ha più bisogno di etichette per essere spiegato tanto è divenuto comune: la diffusione del commercio on-line. Si compra in rete, a prezzi più convenienti non solo che nei negozi di zona, ma anche della grande distribuzione. Non è solo una questione di prezzo. Internet offre molta più scelta. Moltissima di più. Con conseguente crisi della vecchia distribuzione. Ed ecco quindi che dal parlare dello smart-working siamo arrivati a parlare agli impatti sui settori economici. Successo quindi per i distributori on-line, ma anche diffusione della fibra, del wi-fi e di tutta l’elettronica. Ci si deve organizzare degli uffici in casa. Non solo. Non potendo più frequentare cinema, teatri, eventi, concerti, feste e sagre, la gente, chiusa in casa, guarda la TV, che non è più quella di una volta. L’offerta è cambiata. Molto ormai gira sulla rete, grazie alla fibra, sempre più diffusa.
Questo comporta una crisi del settore intrattenimento, con difficoltà o chiusure di cinema, discoteche e teatri.
E che dire del turismo, la grande vittima di questa pandemia? Si riprenderanno mai alberghi, ristoranti, bar? Durante le ultime due estati è parso di sì, ma c’è un fenomeno che si va diffondendo, fatto di paura, abitudini mutate, nuovi interessi che mi fa pensare a una difficile ripresa ai ritmi di un tempo. Tutto dipenderà da quando verrà fuori il prossimo virus, se ci lascerà qualche anno di tregua, qualche decennio o solo pochi mesi.
Di certo la ristorazione è mutata anche nelle sue forme con la diffusione di menù scaricabili mediante QR-code (per non farli toccare da clienti diversi), la scomparsa quasi totale dei buffet, il diffondersi del take-away, l’allargarsi di bar e ristoranti verso gli spazi esterni, con l’invasione dei marciapiedi, in un’ottica di consentire maggiori distanziamenti e di usufruire dei benefici dell’aria aperta. Il sistema alberghiero perde quote verso la locazione di alloggi, che consente minori occasioni di contatto interpersonale. In generale la crisi del comparto turistico, sebbene cerchi di riorganizzarsi, rimane una delle più gravi. Perde comunque non solo clienti che viaggiano per svago, ma anche tutti coloro che prima si spostavano per incontri di lavoro, ora svolti on-line. La scomparsa di turisti, viaggiatori temporanei per lavoro e studenti ha colpito il mercato delle locazioni.
Altro effetto dello smart-working è la possibilità di vestire come si vuole. Io ero uno di quelli che andava al lavoro in giacca e cravatta, con tutta la scomodità del caso, ma anche il costo relativo. Gli abiti da uomo erano un settore già alquanto ridimensionato, ma immagino che stia subendo una discreta perdita di mercato difficilmente recuperabile. Lo stesso per certi abiti femminili. Idem per le scarpe “da ufficio”. Diciamo che tra gli impatti del covid-19 c’è anche un radicale mutamento della moda, non quella effimera basata sulle passerelle e le sfilate, ma quella quotidiana, un po’ come il passaggio dalla toga romana ai pantaloni. Siamo tutti diventati più casual. Molto più che casual, direi.
Insomma, questi e altri settori economici stanno attraversando gravi difficoltà che potrebbero non finire con l’estinguersi della pandemia, difficoltà che non riguardano solo gli imprenditori ma anche e soprattutto tutti quei lavoratori che hanno perso il proprio posto e che ora devono rinunciare a un’esperienza e una professionalità per reinventarsi, se ci riusciranno, in altri comparti. Alcuni lavori stanno perdendo importanza e altri ne stanno nascendo, ma la migrazione da un comparto all’altro non è né diretta né facile. Cos’altro è mutato? I rapporti sociali in genere. Si è detto di come non ci siano più gli scambi tra colleghi, che si contattano sempre più solo per motivi strettamente lavorativi, senza più gli intervalli pranzo e le pause caffè come momenti conviviali. Niente più feste, eventi, convegni, sagre e altri ritrovi. Ci sono le variamente difficili convivenze familiari, con uno o due adulti che lavorano in casa, figli che seguono la didattica a distanza, altri più piccoli che reclamano attenzione, ignari degli orari di lavoro. Forse qualche risparmio sulle baby-sitter e le domestiche, per chi se le poteva permettere e un po’ meno lavoro per loro.
Chi ne ha modo, poi, riesce a portare i figli in vacanza al mare, in montagna o in campagna, essendo presente ma lavorando in contemporanea. Insomma, un recupero e una riscoperta, nel bene e nel male della vita in famiglia. Con le crisi e le separazioni che hanno segnato le coppie più fragili, ma con una riscoperta della cura parentale per altri.
Mi chiedo poi se saremo capaci di imparare da questa terribile esperienza la fragilità del nostro mondo, della nostra civiltà e delle nostre abitudini. Molti altri sono, infatti, i pericoli, oltre alle pandemie, che incombono sull’umanità e su questo mondo, innanzitutto l’allarmante perdita di biodiversità, quindi il surriscaldamento globale, la desertificazione, l’erosione delle coste, l’esaurirsi dell’acqua potabile, l’inquinamento e la diffusione delle plastiche, il taglio indiscriminato delle foreste e gli incendi in crescita. In un contesto depauperato ammalarsi sarà più facile. Ne nascerà finalmente una nuova e più solida coscienza ecologica? Riusciremo a comprendere che questi sono problemi cui dedicare ogni sforzo prima che sia troppo tardi? In tutto questo potrebbe sembrare che mi sia dimenticato dei malati e dei morti. Questo morbo ha generato un fenomeno sociale importantissimo ma anche estremamente tragico. Al 21 agosto i casi nel mondo sono stati 211 milioni e i morti oltre 4 milioni. Anche questa è stata per le famiglie di tutte queste persone una drammatica rivoluzione, che, soprattutto nei casi dei decessi (e molti non erano persone anziane), ha comportato radicali mutamenti delle vite familiari. Non vi pare una rivoluzione e non vi pare che la sua diffusione sia “virale”?
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