Articolo pubblicato su IUA n° 1, Anno III, Gennaio 2016
In un tempo lontano, quasi all’inizio della mia carriera di insegnante, fui destinato a una cattedra in una cittadina tra Toscana e Romagna, in mezzo agli Appennini. Per raggiungerla (in auto o in autobus – i treni qui proprio non li hanno mai visti) era – ed è – necessario svalicare i gioghi appenninici ben due volte, con partenza da Firenze, raggiungendo prima la valle del Mugello, e quindi quella del Santerno, fiume che corre verso l’Adriatico. Una bella passeggiata, se fatta in primavera o in estate; una vera avventura, quotidiana, quando l’inverno punge e l’alba ti trova impegnato al volante, in una sorta di rally in cui tutto è possibile, anche rimanere bloccati perché una tempesta di vento ti scardina il cofano e te lo proietta d’improvviso sul parabrezza…
Se si prescinde da queste considerazioni, l’itinerario offriva di tanto in tanto immagini indimenticabili: il daino dalle lunghe corna che ti attraversa la strada, maestoso sulla neve già alta, precedendo le femmine del suo harem, mentre il primo sole proietta lame di luce tra le sagome degli abeti; la poiana che, quasi ogni mattina, ti aspetta appollaiata su un albero spoglio lungo la carrozzabile; le macchie chiare del biancospino che costellano la vallata al rifiorire della primavera..
Questo, e molto altro, rimane vivido nella memoria, a distanza di decenni.
Ciò sui cui, qui, voglio richiamare l’attenzione del lettore non è però così spettacolare. Si tratta di un uccello non più grande di un merlo, con la livrea rossastra, il petto e il capo grigio ardesia e la coda bicolore; una caratteristica striscia nera, simile a una mascherina, va dal becco, leggermente ricurvo, all’occhio e alla parte laterale del capo. Il suo nome è Àverla minore (Lanius collurio): un passeriforme che si nutre d’insetti, piccoli e grossi, i quali però, almeno nella buona stagione, quando c’è abbondanza, non vengono consumati tutti e subito, bensì “conservati” in una dispensa particolare. Ecco di cosa si tratta, nella mia esperienza.
Il secondo passo che dovevo valicare, ogni mattina, si chiama Passo del Giogo, quasi una tautologia, ma tant’è. Si sale con parecchi tornanti, dal Mugello, fino a più di 800 metri, tra boschi
di querce e di castagno misti a conifere, per poi scollinare in una vallata verde di prati e arbusti, che costituiscono un buon pascolo e sono quindi delimitati, di tratto in tratto, da filo spinato. Era primavera e da più giorni, nello stesso punto, vedevo svolazzare e posarsi, sui pali della recinzione, un uccello grigio-rossastro. Un mattino, in cui ero in anticipo sui normali orari, accostai la macchina per osservare meglio. Il volatile, come di consueto, era nei paraggi, e non si allontanò di molto neppure quando, aperta la portiera, uscii a controllare. Il sospetto che mi era venuto fu confermato: sulla recinzione di filo spinato, erano stati letteralmente “impalati” vari insetti di grosse dimensioni, tra cui spiccavano una locusta e un cervo volante. Dunque, l’alato ed elegante individuo era un feroce predatore, appunto un’Àverla, che spesso non limita la sua caccia ai soli coleotteri e affini, ma attacca anche piccoli rettili (lucertole, rane) e talora uccelletti di modeste dimensioni. In genere, l’attività predatoria si svolge nei pressi del nido, nascosto in un arbusto preferibilmente spinoso (il biancospino è una scelta eccellente) sugli aculei del quale vengono infilzate le vittime. Si vede che la mia Àverla si era evoluta, tanto da utilizzare un manufatto come il filo spinato…
Ho letto poi da qualche parte che, in alcune zone, l’Àverla è chiamata anche “falconetto”, ed in effetti, pur essendo un cugino dei Passeri, assomiglia per alcune attitudini ai grandi rapaci diurni.
È ancora abbastanza diffusa nel nostro paese, tuttavia la graduale scomparsa di prativi coperti di cespugli e di macchie di rovo ne limita sempre più l’habitat.
L’aspetto dell’Àverla è veramente gradevole, tanto che, talvolta, è stata resa domestica. Umberto Saba, grande ornitofilo, giocando sull’ambiguità del termine “avèrla”, compose una bella poesia:
Il fanciullo e l’Àverla
S’innamorò un fanciullo d’un averla.
Vago del nuovo – interessate udiva
di lei, del cacciatore, meraviglie:
quante promesse fece per averla!
L’ebbe; e all’istante l’obliò. La trista,
nella sua gabbia alla finestra appesa,
piangeva sola e in silenzio, del cielo
lontano irraggiugibile alla vista.
Si ricordò di lei solo quel giorno
che, per noia o malvagio animo, volle
stringerla in pugno. La quasi rapace
gli fece male e s’involò. Quel giorno,
per quel male l’amò senza ritorno.
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