Oggi Firenze piange Riccardo Marasco, il menestrello fiorentino che tutti hanno amato e cantato le sue canzoni in vernacolo. La Redazione de “L’Italia, l’Uomo, l’Ambiente” rende omaggio all’uomo, amico e grande artista riproponendo sia un articolo del nostro direttore Gianni Marucelli apparso su questo sito non molto tempo fa sia due video condivisi da youtube di alcune sue canzoni più famose: l’Alluvione e Vita morte e miracoli di Luca Cava…
Metti una sera a cena… con il cantore della fiorentinità
Articolo pubblicato su IUA n° 11, Anno II, Dicembre 2015
Riccardo Marasco è stato, e resta, il compositore e l’interprete più notevole della canzone popolare toscana.
Più di dieci anni sono passati da quando ho avuto il piacere di ascoltare la sua voce e la sua chitarra dal vivo, in un contesto assolutamente privato. Stasera lo ritrovo a una cena di amici dello “slow-food”, dedicata alla cucina maremmana, e sembrerebbe che l’acquacotta, i crostini di fegato di coniglio e la scottiglia (piatto di carne eccellente, ma poco conosciuto al di là dei confini regionali) siano i protagonisti della serata, quando in realtà lo è lui: Riccardo Marasco, fiorentino D.O.C., una vita intera dedicata alla ricerca della tradizione dei canti popolari toscani, alla composizione e, cosa che lo ha fatto conoscere e amare da tutti, all’interpretazione mirabile di testimonianze musicali legate alla terra e alle genti di Toscana. Ha 77 anni, Riccardo, ma la sua ironia e la sua verve rimangono intatti, nonostante le amarezze e le delusioni di cui è stata costellata la sua carriera di “menestrello”, così come intatta, seppure un po’ invecchiata, è la celebre chitarra “alata”, sua compagna da sempre negli appuntamenti col pubblico. Il tema del concerto di stasera, in accordo con ciò che il menu propone, è la Maremma, la Maremma qual era con le sue paludi, le sue colline, le sue boscaglie che, oltre ai cinghiali, nascondevano briganti e rivoluzionari, ovvero, più spesso, rivoluzionari che si davano alla macchia e finivano per divenire briganti. E la malaria, la maledizione secolare che ha mietuto più vittime di una guerra, e che è stata debellata da men di un secolo. Di questo ci parla la versione completa (attestata in manoscritti del XVI secolo) di “Maremma amara”, così diversa nella versione che Marasco ci propone come sono diversi i fagioli all’uccelletto che faceva mia nonna da quelli proposti da qualche ristorante alla moda…
Riccardo alterna dotte spiegazioni storiche alla esecuzione di brani, da cui emergono personaggi, famosi e meno, di cui è costellata la lunga vicenda della terra di Toscana: Pia de’ Tolomei, drammaticamente relegata dal marito in un castello sperduto nelle Maremme (“Siena mi fe’, disfecemi Maremma”, così la fa parlare Dante in un celebre verso della Commedia”), il brigante Tiburzi, Domenico Tiburzi, che si batte per se stesso ma, dice la leggenda, anche per riscattare un popolo vessato (tenne in scacco per anni i carabinieri, lo uccisero per un tradimento e lo esposero come una bestia feroce al pubblico ludibrio: e questa è storia, ne rammento la foto d’epoca).
Poi, perché non lo voleva né Dio né il Diavolo, il suo corpo fu sepolto mezzo dentro e mezzo fuori la cinta del cimitero di Capalbio. Marasco canta, la voce un po’ arrochita, e dipinge suggestioni lontane, canta un’antica leggenda del Regno di Napoli e sembra di star dentro “Lo cunto de li cunti” di G.B. Basile, canta le vicende di una famiglia di minatori maremmani, e passa dal serio al faceto, cercando nuovi spunti nel suo immenso archivio mentale. Son passate già le undici, il fuoco nel camino si è spento da un pezzo, Riccardo è stremato. Chiede a quello più vicino a lui, cioè al sottoscritto: “E ora, che si fa?”. “Un classico, di quelli tuoi, poi si va a letto!”. “Il classico, a questo punto, sarebbe proprio di andare a nanna…”, mi risponde, ma poi solleva la chitarra e intona “Firenze bottegaia”, una bellissima canzone composta nel 1989, in cui si percorre la città dando conto di tutte le attività artigianali e commerciali ormai estinte, e si prefigura quello che oggi è divenuto il centro di Firenze, un magnifico scrigno senz’anima. Fioccano gli applausi, regalo a Riccardo un mio libro di poesie, in parte scritte in vernacolo fiorentino. Ci accomiatiamo. La notte di ottobre ci accoglie più umida e fredda, dopo il calore delle emozioni che abbiamo appena vissuto.
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