Articolo pubblicato su IUA n° 10, Anno IV, Novembre 2017
“Vi morì il Conte di Cagliostro nel 1795”
Chi fu veramente Cagliostro? È la prima domanda che mi salta in mente osservando dall’alto il freddo e orribile buco – impropriamente chiamata cella – dove fu relegato dalla Santa (?) Inquisizione l’eretico, il mago, il taumaturgo, l’imbroglione, il massone Giuseppe Balsamo, autonominatosi Conte di Cagliostro. Senza una penna né un libro – lui che ne aveva scritti diversi -, senza poter parlare con nessuno, senza l’ora d’aria che adesso si concede anche ai delinquenti più efferati, senza i cosiddetti “conforti della religione”, qui visse parecchi mesi quest’uomo, celebre al suo tempo, fino a morire di un colpo apoplettico nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1795. Il suo corpo, frettolosamente sepolto nei pressi della fortezza dove era rinchiuso, non è mai stato ritrovato.
Perché la Chiesa ne ebbe tanta paura da farlo catturare, su denuncia della moglie e con metodi particolarmente spicci, proprio a Roma dove se ne stava tranquillo, mentre avrebbe potuto rifugiarsi pressoché ovunque in Europa? Perché tradurlo davanti a un’istituzione screditata e morente, quale l’Inquisizione, per un processo-farsa che si trascinò per mesi e che aveva già scritta la sentenza nel capo principale d’accusa, cioè l’eresia? Non si era più, in quel 1789 fervido di rivoluzione, ai tempi dell’abate Gioacchino da Fiore, e nemmeno in quelli di Galileo Galilei. La Scienza e l’Illuminismo avevano conquistato le classi colte, nobiltà e parti del clero comprese, ma rimanevano evidentemente ai margini, in quel Vaticano riottoso ad ogni progresso, dal quale il Papa sarebbe stato cacciato presto dalle truppe napoleoniche (come predetto dallo stesso Cagliostro, ma questo è un altro discorso…). Perché poi, una volta condannatolo al rogo, “graziare” il reo (per volontà papale) e mandarlo a morire in questa fogna schifosa? Solo per mera convenienza politica e per non farne un martire agli occhi dell’opinione pubblica?
Quante domande a cui non so rispondere…
E poi, e poi… ma davvero qui fu fatto marcire il “vero” Cagliostro, Gran Cofto della Massoneria di Rito Egizio, da lui fondata, e non Giuseppe Balsamo, piccolo truffatore palermitano? Ovvero, per renderla più comprensibile a tutti, esistevano “due” Cagliostro, e l’imbroglioncello fece la fine del topo, mentre il Gran Maestro continuava a vivere in incognito? E’ quel che sostenne, ormai molti anni fa, Piero Carpi, singolare giornalista e scrittore nonché sceneggiatore di fumetti molto noti (Diabolik è suo), nonché, ancora, teosofo e iscritto – non si sa se contro la sua volontà – alla Loggia P2.
Molte cose mi tornano in mente, mentre scendo per le scalette che mi riportano, dalla cella del Pozzetto, al piano terra della grande fortezza, capolavoro di architettura militare ora perfettamente restaurato. Ma soltanto di una sono sicuro: che qui fu martirizzato un essere umano famosissimo ai suoi giorni, senza che avesse commesso nessun grave delitto, tranne quello di esprimere liberamente la propria opinione e di volerla diffondere con le parole e con l’arte medica – senza pretendere un soldo soprattutto dai poveri (e questa è verità storica piuttosto assodata).
La Massoneria del nostro tempo – che, all’epoca, non si dette poi un gran daffare per salvare così illustre adepto – pochi anni fa, con un documento scritto che viene mostrato in una teca ai visitatori, ha riconosciuto a Cagliostro il massimo dei livelli dell’ordinamento massonico (il trentatreesimo).
E questo vorrà pur dire qualcosa…
Esco sui grandi piazzali d’armi della rocca, da cui si gode un panorama stupendo. Da una parte il Monte Titano e la Repubblica di san Marino, e più oltre ad oriente l’azzurro dell’Adriatico; dall’altra le colline tra Romagna e Marche e i monti dell’Appennino.
A sud, scorre verso il mare il fiume Metauro. Un altro nome, un altro drammatico episodio, stavolta dell’antichità. Qui si decise effettivamente uno snodo della storia: Annibale aveva avuto più volte a portata di mano la possibilità di distruggere Roma e di imporre il dominio cartaginese sul Mediterraneo e sull’Italia. Ma, dopo tante vittorie, si era attardato nel meridione (i famosi ozii di Capua) perché le sue truppe erano sfinite e non riusciva a ottenerne altre, via mare, dalle coste puniche. La flotta romana vigilava, e del resto a Cartagine, terra di mercanti, non ne potevano più di quella guerra ormai ventennale che disturbava i traffici. Un esercito di rinforzo poteva giungergli solo dalle colonie di Spagna, per la via attraverso le Alpi che egli stesso aveva percorso.
Il condottiero sapeva di potersi fidare solo dei suoi congiunti: e infatti fu il fratello, Asdrubale, a guidare fino in Italia le truppe fresche, che avrebbero dato nuova linfa per tentare uno sforzo decisivo e annientare Roma. Ma i consoli M. Appio Nerone e Livio Salinatore trassero Asdrubale in un tranello, proprio nel momento di attraversare il Metauro, in quella terra che noi oggi chiamiamo Marche. Lo sconfissero, massacrarono il suo esercito: Asdrubale cadde combattendo valorosamente. I Romani furono così sagaci da tagliargli la testa che, conservata in un cesto, fu gentilmente recapitata ad Annibale. Da lì in poi le cose, per i Cartaginesi, precipitarono rapidamente, fino allo scontro finale sul suolo africano, a Zama, dove Scipione ebbe la meglio sul rivale.
Ma sto divagando, torno veloce all’epoca mia, esco dalla Rocca di San Leo e discendo al paesino sottostante, un altro gioiello di storia e d’arte.
Il luogo, infatti, per la sua posizione dominante dovette essere abitato fin da epoche antiche; la tradizione attesta che fu evangelizzato dal santo di origine dalmata che gli ha dato il nome, nel IV secolo dopo Cristo, e che successivamente, nell’anno 962, Berengario III, marchese d’Ivrea e re d’Italia (l’ultimo prima di Vittorio Emanuele II, novecento anni più tardi) vi si difese strenuamente per alcuni mesi contro l’imperatore Ottone I, che alla fine lo catturò.
Oggi il borgo di San Leo presenta una bellissima piazza con edifici medioevali e rinascimentali, tra cui si segnala Palazzo Severini, perché qui è la stanza dove Francesco d’Assisi ricevette in dono dal conte di Chiusi, Orlando Catani, il Monte della Verna (8 maggio 1213).
I monumenti più notevoli però sono le due chiese, l’una vicinissima all’altra: la Pieve, che risale ai tempi di Berengario, quindi certo anteriore al 1000, e il Duomo romanico, di cui si conosce l’anno di inizio dei lavori, il 1173. In ambedue le costruzioni furono ampiamente usati elementi architettonici “di recupero”: colonne e capitelli, in particolare, sono di epoca romana.
La parte più suggestiva, sia nella Pieve che nel Duomo, è la cripta: triabsidata quella della Pieve, a tre navate rette da pilastri e colonne quella del Duomo.
La grande torre campanaria di quest’ultimo si trova isolata; dallo spazio attorno si gode un bel panorama.
La vista, tuttavia, corre sempre alla imponente fortezza che incombe sul paese: quanti infelici prigionieri, nei secoli, guardarono dalle anguste feritoie delle loro celle a questi monumenti della fede, quella stessa fede che li aveva condannati a lunghe pene, spesso fatali…
Uno di quelli che uscì dal carcere, libero e sulle proprie gambe, fu Felice Orsini, patriota risorgimentale, seguace di Mazzini, che soggiornò qualche anno nella rocca di San Leo tra il 1844 e il 1846; è probabile – ma non ricordo esattamente – che fosse graziato da Papa Pio IX al momento della sua ascensione al soglio di Pietro.
Per certo però non è entrato nei libri di Storia per questa sua detenzione, bensì per l’attentato bombarolo con cui, nel 1859, cercò di uccidere, a Parigi, l’Imperatore Napoleone III, reo di aver tradito le proprie giovanili convinzioni rivoluzionarie e anticlericali. Il sovrano restò illeso, alcuni passanti invece rimasero morti sul terreno. Come qualcuno di voi ricorderà, l’Orsini fu condannato alla pena capitale; però il suo gesto minacciava seriamente l’alleanza tra Francia e Piemonte in funzione antiaustriaca. Camillo Cavour riuscì in qualche modo a convincere il condannato a scrivere una “nobile lettera” a Napoleone, in cui si chiedeva di non abbandonare il popolo italiano nella sua lotta per la libertà.
Il documento uscì sui giornali e il nipote del grande Napoleone non poté tirarsi indietro, e forse neppure lo desiderava.
Vita avventurosa, quella dell’Orsini, che meriterebbe più ampio spazio di quello che le abbiamo qui dedicato. Si concluse sul patibolo, con gran dignità, al grido di “Viva la libertà, viva l’Italia!”
E io chiudo qui questo lungo articolo, in cui ho mescolato epoche e personaggi storici assai diversi, e me ne scuso col lettore…
Galleria fotografica © Gianni Marucelli 2017
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