Articolo pubblicato su IUA n° 9, Anno IV, Ottobre 2017
Come il cacio sui maccheroni, diremmo noi, o come il burro sugli specknodel, come direbbero i sudtirolesi, la notizia mi ha raggiunto mentre mi accingevo a scrivere questo articolo sul Museo della Pesca e della Caccia in provincia di Bolzano, che ho avuto modo di visitare nelle scorse settimane.
“Basta con la tolleranza, noi usciamo dai progetti di ripopolamento relativi al Lupo e all’Orso – questa la sostanza di una dichiarazione dell’Assessore alla caccia altoatesino, Schuler, riportata dall’Ansa – anzi, chiediamo libertà di sparare ai lupi “in esubero” rispetto ai limiti da noi stabiliti!”
Cosa mai è accaduto, per far infuriare così l’Amministratore?
È successo che, dopo essere stato sterminato quando ancora felicemente regnava Francesco Giuseppe, alla fine dell’800, il predatore è ricomparso circa 6 anni or sono sulle montagne del Sudtirolo; accolto con un misto di curiosità e timore, il Lupo qualche mese fa non si è più accontentato di correre dietro a caprioli e cerbiatti, ma ha trovato più conveniente papparsi qualche capretto e (forse) un vitello. Non più avvezzi da più di un secolo a simili rischi, gli allevatori dell’Alpe di Siusi hanno minacciato di riportare le mucche dai pascoli alti nelle stalle.
È bastato per far scattare il diktat dell’esuberante assessore, supportato dal Presidente stesso della Provincia. Già che erano in ballo, i due hanno pensato bene di accomunare le sorti del lupo a quelle dell’Orso bruno, che popola sì il Trentino ma, per quanto ne so, non ha ancora messo zampa in territorio di lingua tedesca. Beh, non si sa mai, devono aver pensato, noi mettiamo le mani avanti e, se accade, ci sentiamo liberi di sparare…
Tanto più a proposito, dopo quanto è accaduto alle compiante Orse Daniza e KJ2, ambedue celermente fatte fuori su mandato degli zelanti amministratori della Provincia di Trento, per aver aggredito (senza gravi conseguenze) due incauti turisti, reagendo a una possibile minaccia ai propri cuccioli.
Insomma, mi sono chiesto, io che vivo in Toscana, regione che attualmente ospita qualche centinaio di lupi: in che modo mai è intesa la caccia e la convivenza con i predatori (che sono pur utili per gli equilibri ecologici) in un territorio ricco di foreste come il Sudtirolo? E la risposta era nei miei recenti ricordi e nelle foto scattate nel bellissimo Castel Wolfsthurn, a Mareta (vicino a Vipiteno) che ospita appunto il Museo della Caccia e della Pesca di cui parlavo all’inizio. Già nel nome, e forse non è un caso, si cela il Lupo (Wolf), seguito dal termine Thurn, Torre. Torre dei Lupi, dunque.
Qualche parola il Castello, ancora abitato dall’ultimo rampollo della nobile famiglia Sternbach, che lo fece erigere nel 1700, lo merita: situato su un dosso all’inizio della splendida Val Ridanna, è imponente ed elegante a un tempo. Salendovi dal paese, si accede a un cortile in cui sono state poste due opere in bronzo, rappresentanti la fauna ittica e quella selvatica; ma proprio nel portale d’ingresso ci aspetta Lui: l’Orso bruno alpino, ben impagliato s’intende, erto su due zampe a minacciare, con scarso successo, i turisti. Accanto, uno dei suoi cuccioli, anch’egli vittima di un proiettile sparato chissà quanto tempo fa. Una carrozza d’epoca, bella assai, orna l’altro lato dell’atrio: un veicolo che ci riporta a un’altra vittima di un’arma da fuoco, stavolta umana e molto illustre. Pare vi sia giunto al Castello l’Arciduca Rodolfo, proprio colui che, per amore, pose fine ai suoi giorni in quel di Mayerling…
Una doppia scalinata ci porta al primo piano, in cui è stato sistemato il Museo; diamo un sguardo fugace al settore Pesca, che pure presenta mirabili vetrine che farebbero felice ogni appassionato di pesca con la mosca, e ci fiondiamo nel settore caccia. Un povero Lupo impagliato è sovrastato da qualcosa di molto più inquietante: il capo male imbalsamato di uno degli ultimi di questa specie, che cadde sotto i colpi di un cacciatore di queste valli nel 1864, anzi, venne ferito (se non traduciamo male dalla più che centenaria scritta in gotico tedesco) per poi essere rinvenuto ai piedi di una cascata.
Il corridoio davanti a noi è adornato da decine di palchi di cervo, l’animale considerato il Re della Foresta e perciò preda voluttuosa, ambita da principi, nobili e ricchi borghesi. Stop. Sì, perché la caccia era prerogativa innanzi tutto regale, e il re (in questo caso l’Imperatore) concedeva come regalìa alle più elevate classi sociali il privilegio di praticarla. Divenne uno status symbol da far invidia ai panfili e alle villone in Sardegna dei riccastri contemporanei, l’andare a caccia, e se poi la preda era un cinghiale e non il pregiatissimo cervo, bisognava sapersi accontentare. Tanto più che l’uso delle armi da fuoco al posto di balestre (ne osserviamo alcune davvero antiche) o di “spiedi”, sorta di lance lunghe e robuste, facilitava assai le cose. Quindi, fino al sec. XIX, pochi erano i cacciatori – nobili e loro cortigiani – molti i contadini che stentavano a pan di segale e patate. E molti, quindi, gli ungulati che potevano sbafarsi anche lo scarso frumento, tanto la povera gente nulla poteva fare. Ricordate la storia di Jordie, così ben cantata da Fabrizio de Andrè? Beh, anche qui tentare di “rubare” i cervi del Re poteva rivelarsi un pessimo affare… anche per i lupi, sia detto per inciso, che venivano perseguitati per… furto di prede ai danni della nobiltà!
Quando si estinse la linea “tirolese” degli Asburgo, le grandi adunate venatorie della Corte su queste montagne diminuirono e cessarono. Una sovrana “illuminata” come MariaTeresa pensò bene che poteva finanziare lo Stato dando in appalto quelle che un tempo erano le “regalìe”, ossia le riserve regie di caccia. Che non fu più appannaggio dei nobili, ma dei tanti borghesi delle fiorenti città e cittadine. In capo a qualche decina di anni, la selvaggina diminuì paurosamente, alcune specie addirittura scomparvero. L’Imperatore Giuseppe II cercò di salvare le capre (ossia i diritti dei proprietari, in parte borghesi, delle riserve) e i cavoli (ossia i raccolti dei contadini), abolendo definitivamente le regalìe e introducendo dei princìpi di tutela della selvaggina e di ripopolamento della stessa: ma oramai – concludiamo – la caccia era alla portata di chiunque possedesse i terreni, un fucile e i soldi per quella che noi chiamiamo “licenza”. Gli altri, come di consueto, cacciavano di frodo… Però la caccia era entrata nella vita e nella cultura della popolazione, tanto che oggi, nelle dichiarazioni ufficiali della Provincia autonoma di Bolzano, si legge quanto segue:
La caccia è una componente della cultura della nostra popolazione.
Pertanto, si evince, la fauna deve essere protetta solo entro limiti che non interferiscano con la richiesta “culturale” dei cacciatori. I predatori – lupo orso e linci (in fase di ritorno anch’esse) – sono considerati, sotto sotto, ancora “animali nocivi”, non perché costituiscano un reale pericolo per l’uomo e le sua attività, ma perché sono competitors dei cacciatori.
Una nozione che sembra volersi inculcare anche ai visitatori del Museo, non mancano infatti interessanti quadri – presumibilmente settecenteschi – che mostrano i lupi come neri mostri che attaccano e uccidono cavalli, cervi ecc.
Una nozione che, inconsciamente, sottintende una memoria storica: per troppo tempo la caccia è stata privilegio del re e della nobiltà; ora, in democrazia, tutti ne devono beneficiare.
Che anche agli animali debbano essere riconosciuti dei diritti, non è cosa che interessi, e infatti in tutto questo grande e ben fornito Museo non se ne fa il minimo cenno…
Usciamo dunque dal Castello, con un riverente inchino al minaccioso Orso e al suo cucciolo, e augurando buona fortuna a tutti quelli della loro specie che si introducessero in territorio sudtirolese senza il permesso – scritto in italiano e tedesco – timbrato e firmato dall’esimio Assessore Schuler.
Galleria fotografica © Gianni Marucelli 2017
ALTO ADIGE: L’ORSO, IL LUPO, IL CASTELLO E L’ASSESSORE by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.