Di Gianni Marucelli
Riprendiamo il nostro itinerario in provincia di Forlì – Cesena, dedicandolo stavolta a un personaggio molto più piacevole e, senz’altro, meno storicamente dibattuto di Benito Mussolini: quel Pellegrino Artusi il cui libro più celebre, “La scienza in cucina o l’arte del mangiar bene”, ha unito (intorno a una metaforica tavola) gli italiani forse più che le cariche del Savoia cavalleria o le baionette dei garibaldini.
Figlio di un facoltoso droghiere, che teneva famiglia numerosa (dodici figli), Pellegrino nacque nel 1820 presso Bertinoro, paese dove condusse gli studi presso il locale seminario. A quanto pare, poi si trasferì a Bologna per seguire l’Università. Una gioventù tranquilla, che però fu sconvolta da una vera e propria tragedia: il 25 Gennaio del 1851, il famoso bandito Stefano Pelloni, detto il Passatore, attaccò Forlimpopoli, prendendo in ostaggio durante una serata a teatro le maggiori famiglie della cittadina. Oltre a rapinarle dei beni, tramite la richiesta di un riscatto di oltre 40.000 scudi, i briganti inflissero oltraggio alle donne, violentandone alcune, tra cui la sorella di Pellegrino, la quale rimase così sconvolta da perdere la ragione ed essere rinchiusa in manicomio. Un episodio che indubbiamente ci fa molto dubitare dell’immagine romantica che del Passatore ci ha tramandato il Carducci (lo definisce “cortese”), e che indusse la famiglia Artusi a trasferirsi a Firenze, dove Pellegrino trascorse, tra le attività finanziarie che gli resero molto e quelle gastronomico-letterarie che gli assicurarono fama imperitura, tutta la vita, morendo in tarda età (novant’anni) a riprova che il mangiar bene non nuoce certo alla salute…
Per iniziare al meglio l’itinerario dedicato all’Artusi, partiamo da un nuovissimo tempio della gastronomia italiana, il meganegozio di Eataly aperto qui qualche mese fa da questa catena alimentare fondata da Oscar Farinetti, ormai diffusa in Italia e all’estero. La location di Eataly a Forlì è davvero meravigliosa: sita in uno dei più bei palazzi di Piazza Aurelio Saffi, dalle sue ampie vetrate si gode un panorama stupendo della città (vedi foto).
Ci facciamo solo stuzzicare l’appetito da una pizza Margherita, poi ci dirigiamo verso Forlimpopoli.
Non è un caso che, all’ingresso nel suo territorio, ci dia il benvenuto proprio la statua bronzea di Artusi. A Forlimpopoli ci fermiamo giusto il tempo per ammirare la trecentesca, imponente Rocca fatta costruire dal Cardinale Albornoz e quindi completata, un secolo dopo, dalla famiglia Ordelaffi.
Una sala della Rocca conteneva proprio il teatro in cui si svolsero nel 1825 i terribili fatti sopra narrati… Riprendiamo il nostro itinerario, dirigendoci verso il colle dove sorge il borgo arroccato di Bertinoro. Saliamo tra vigneti che supponiamo produrre un ottimo Sangiovese; poi, lasciata l’auto in un parcheggio esterno alla cinta muraria, ascendiamo verso la Piazza della Libertà, da un lato della quale si domina la pianura fino al mare. Grandi edifici storici, quali la cattedrale, riedificata alla fine del ‘500, e il Palazzo Comunale, fatto erigere nel Trecento dagli Ordelaffi, attirano i turisti, che però sono attratti anche da una semplice colonna, cinta da un doppio giro di anelli di ferro. Si tratta della Colonna dell’Ospitalità, così chiamata perché fu ricostruita, un secolo fa, sui resti di un manufatto dello stesso tipo, ideato all’inizio del XIV secolo da due begli ingegni, Guido del Duca e Arrigo Mainardi, che intesero così far cessare le rivalità tra le famiglie bertinoresi di un certo livello attorno a una questione che oggi non si porrebbe: a chi toccava l’onore di dare ospitalità a un forestiero in arrivo? Invece che risolvere il quesito a randellate o colpi di spada, sarebbe stato lo straniero stesso a scegliere il proprio ospite, legando i finimenti del cavallo all’anello appartenente alla famiglia prescelta. Chissà mai che una visita a questo vetusto quanto semplice monumento non possa ispirare qualche buon sentimento (rigorosamente padano) a Matteo Salvini e compagnia…
Senza divagare oltre, saliamo alla Rocca millenaria, che ebbe l’onere, più che l’onore, di dare ospitalità a un’ingombrante personalità dell’epoca: niente meno che l’imperatore Federico Barbarossa. Da allora è passato molto tempo, e oggi il maniero è sede dell’Università.
In un grazioso giardinetto, vicino all’ingresso, due gruppi scultorei raffiguranti una coppia di innamorati ci ricordano che la potenza dell’amore, talora, è molto più affascinante di uno scettro regale.
Ma il tempo stringe… il buon Pellegrino Artusi (o meglio, i suoi eredi spirituali) ci ha dato appuntamento per pranzo, e prima dobbiamo visitare un ultimo storico luogo.
Agile e solo vien di colle in colle quasi accennando l’arduo cipresso. Forse Francesca temprò qui li ardenti occhi al sorriso?
Con questa quartina si apre la lunga Ode che Giosuè Carducci dedicò nel Luglio del 1897 alla Chiesa di Polenta, pieve millenaria di grande fascino, che resiste al tempo sulle colline non lungi da Bertinoro.
La donna cui accenna il poeta è la “Francesca” per antonomasia, ossia Francesca Polenta Malatesta da Rimini, protagonista assoluta del V Canto dell’Inferno. Che Dante Alighieri fosse ospite gradito dei Signori di Ravenna, appunto i Da Polenta, lo sanno anche i miei gatti; è molto probabile che abbia frequentato questa antichissima chiesa, che ai suoi tempi doveva già essere plurisecolare, e ne abbia tratto ispirazione, come, seicento anni dopo, fece il Carducci, la cui effigie bronza adorna lo spazio esterno sul lato sinistro della struttura. È mia opinione che i due poeti non abbiano trovato alcuna difficoltà a varcare le sacre porte: cosa che invece a noi accade, perché è in corso un matrimonio di stile becero-tradizionale, con tanto di spari di mortaretto all’uscita dei nuovi coniugi dall’edificio; il che avviene proprio in tempo perché ci intrufoliamo dall’accesso secondario, e troviamo quindi deserto il tempio vetusto. Esso indubbiamente conserva il primitivo stile romanico, anche se è stato oggetto di pesanti restauri a partire dal 1700, con le tre navate delimitate da colonne con interessanti capitelli scolpiti in figure umane e zoomorfe, le tre absidi semicircolari e la piccola cripta suggestiva sotto il presbiterio sopraelevato.
L’esistenza di questa pieve è attestata da un documento risalente al 944, ma che sia veramente antichissima possiamo supporlo anche dalla presenza di marmi di epoca bizantina (VI secolo).
Lo scoccare delle una richiama la nostra attenzione: non sia mai che Pellegrino Artusi ci attenda inutilmente!
Così, percorrendo a piedi il viale fiancheggiato da cipressi che si apre davanti alla chiesa, giungiamo velocemente (l’appetito incalza) al ristorante dove ravioli e lasagne ai funghi porcini faranno la fine che si meritano: divorati voracemente, come Giuda, Bruto e Cassio nelle fauci di Lucifero, tanto per chiudere questo articolo rimanendo in pieno Inferno dantesco…
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