Di Iole Troccoli
Papà fa passi piccoli, trascina i piedi sulla terra, non vede, ha paura di inciampare.
Io lo tengo per mano, gli spiego la strada, gli ostacoli, le variazioni impreviste.
Lui ha quegli occhi persi nel vuoto che non conoscono più.
Lo tengo per mano, spesso gli offro il braccio, se c’è una salita improvvisa o appare una discesa dobbiamo essere cauti, papà non può perdere l’equilibrio, non deve cadere.
Dopo, mi ringrazia sempre, come se non fosse cosa dovuta aiutarlo, sorreggerlo.
Gli racconto che il cielo è nuvoloso, che il termometro grande sopra il supermercato segna tredici gradi ma c’è vento e la temperatura che percepiamo è più bassa.
Gli chiedo se ha calzato bene il cappello.
Ancora passettini, ha i piedi piccoli, papà, li struscia sui marciapiedi sconnessi.
Gli chiedo se è stanco, risponde: ancora no, e quasi sorride.
Nel taxi cerca il sostegno a cui aggrappare almeno una mano, trova una sciarpa, invece. La tocca.
E’ la sciarpa della Fiorentina, esclamo a voce alta.
Risponde che abbiamo trovato un taxi simpatico. Il tassista ridacchia.
Davanti alla commissione i medici fanno domande, gli chiedono di alzarsi, di camminare un po’.
Spostiamo con rumore le sedie, lui fa un breve girotondo, come può. Poi cerca un bracciolo con le dita prensili che disegnano appigli nell’aria, si siede di nuovo, con lentezza.
Risponde con voce dolce, addirittura timida, il mio papà.
Io penso a quando guardavamo insieme i film in TV. Era bravissimo a sceglierli, a parte la sua ostinazione verso i western e gli immancabili di Sergio Leone, che, l’ho capito dopo, quanto fossero belli.
Lo accompagno fuori dalla porta a vetri. Il tempo è sempre ventoso, come di primavera barricata dietro gli alberi.
La commissione gli ha domandato se io fossi l’unica figlia.
Mi si sono riempiti gli occhi di lacrime senza che potessi prevederlo, ma non mi sono vergognata.
Le spalle di papà hanno ceduto a un tremito veloce sotto il cappotto blu notte.
[C’erano tante stelle quella sera, tante stelle false scollate da un cielo perfettamente blu, come la notte del suo cappotto].
Finalmente scivoliamo verso casa: l’ultimo tratto a piedi prima di raggiungere il portone. Mamma è scesa a prenderlo con l’ascensore, io scappo via.
Ti ricordi, papà, quando mi leggevi le favole? Ogni tanto ti leggo qualche articolo di giornale. Ti ricordi quando passavi ore e ore a leggere, nel pomeriggio? Non voglio che ti ricordi, papà.
Se fuori c’è il sole sei più sereno, quando piove è tragedia perché il tuo unico decimo all’occhio sinistro si addormenta, e allora sei al buio completo e maledici la tua sorte.
Io ti parlo di Borges, allora, della sua poesia sull’essere diventati ciechi. Mi chiedi di leggertela. Non ce l’ho, devo ritrovarla, rispondo. La prossima volta te la porto.
Più tardi, quando chiamo per sapere se tutto è a posto e parlo con mamma, sento che gridi dalla poltrona: tanti ringraziamenti per oggi!
Allora sì che mi viene da piangere, papà.
Iole Troccoli, 17 febbraio 2015
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