Di Anna Conte
Quando ero bambina a Latronico, paesino situato ai piedi del monte Alpe, in Basilicata, come in tutte le località del circondario, la cui economia, in parte, si basava sulla piccola produzione agricola necessaria a soddisfare il bisogno familiare, l’alternarsi delle stagioni era scandito dai lavori nei campi e dal raccolto dei frutti che la terra donava.
Andando indietro negli anni, ricordo che tale attività durante il periodo scolastico era svolta dai miei genitori, però durante l’estate era richiesta anche la collaborazione di noi figlie.
A onor del vero devo dire che non vivevamo molto bene questa situazione, perché, durante le vacanze estive mentre i nostri amici si divertivano, a giorni alterni, ci dovevamo alzare alle cinque per accompagnare mia madre in campagna, a innaffiare l’orto, prima che spuntasse il sole, ed evitare che le piante seccassero.
Il problema non era tanto aiutarla a innaffiarle ma arrivarci, perché il posto in questione distava 6 km da casa nostra.
Soltanto adesso riesco a comprendere tutta la bellezza racchiusa in quella vita semplice, priva di stress, senza il ritmo frenetico dell’odierna quotidianità che ci travolge. Era una vita fatta di umiltà, serenità, senza grosse pretese. Ci accontentavamo di quello che Dio e la terra ci donavano e non avevamo bisogno di altro.
Scorgere i bellissimi e cangianti colori dell’alba andando incontro al mattino, respirando l’aria fresca e pulita, rinfrancavano il corpo e lo spirito.
In primavera bisognava preparare la terra per seminare gli ortaggi, i tuberi e tutto ciò che si desiderava per adornare il proprio giardino.
L’orto che coltivavano i miei genitori era uno spettacolo, perché riuscivano ad alternare le piantine in base alle variazioni cromatiche dei frutti che poi sarebbero nati: il giallo dei peperoni e delle zucche con il rosso dei pomodori e il verde delle zucchine, dei fagiolini, e i colori pastello del pesco e del ciliegio che li sovrastavano; tutti magistralmente mescolati. Era bello prendersene cura, vederli crescere dava una soddisfazione incredibile e mi ripagava di quelle mattine in cui mia madre si avvicinava ai piedi del letto per svegliarmi.
Quello era veramente un momento drammatico!
Io e le mie due sorelle dormivamo insieme in una stanza, quando sapevamo che una di noi il mattino presto avrebbe dovuto tirarsi giù dal letto, all’alba, passavamo la notte quasi insonne, e quando mia madre saliva le scale, eravamo tutte e tre sveglie ma facevamo finta di dormire. Sentivamo i suoi passi e cominciavamo a pregare e a sperare che la vittima designata a tale patimento fosse l’altra. Dato che eravamo in tre e Luisa era la più piccola, il conto era presto fatto, la mano di mia madre si sarebbe posata sulla mia spalla o su quella di Maria.
Ma la tortura più grande era dover pulire il grano dalla gramigna che gli impediva di crescere. Stare sotto il sole piegati a estirpare l’erba mentre ti pungevi con le spighe, non era il massimo della vita…
In estate si mieteva il grano e quello devo dire che era un avvenimento piacevole, soprattutto per me e le mie sorelle che ci limitavamo a guardare e a raccogliere qualche spiga che sfuggiva alla falce attenta del mietitore. Più che un lavoro diventava una festa, perché era un momento di condivisione e di allegria. In quell’occasione i miei genitori invitavano altre persone con le quali si aiutavano reciprocamente. Il giorno prima della mietitura mia madre preparava per tutti il lauto pranzetto che il giorno dopo avremmo consumato sotto l’ombra della quercia che fiancheggiava l’immensa landa dorata.
La vasta distesa di grano era situata sotto il livello della strada. Quando arrivavamo, rimanevo incantata dalla bellezza che si spalancava sotto i miei occhi: un mare dorato, le cui onde si muovevano lentamente a ogni soffio di vento, il sole splendente scintillava nel cielo terso e gli uccelli con la loro melodia facevano da sottofondo a questo meraviglioso spettacolo.
Il mio cuore non poteva non sussultare di fronte a tanta grazia, ero felice e i miei occhi splendenti.
Mentre gli uomini impugnando la falce e recidevano le spighe di grano le donne intonavano canzoni raccogliendo, legando le spighe e ammucchiando le gregne.
Poi arrivava finalmente il momento del convivio allora tutti ci andavamo a sedere sull’erba che circondava la quercia e mentre consumavamo l’ottimo cibo preparato da mia madre, il cui profumo è conservato nell’archivio della mia memoria, si parlava e si rideva con estrema allegria. Quando arrivava la sera, ritornavamo a casa stanchi ma felici.
Quando l’aria cominciava a diventare frizzantina e tutta la natura si adornava dei colori intensi e vermigli striati di ocra e verde, l’autunno era alle porte. Malgrado questa stagione può dar adito ad abbandoni melanconici non l’abbia mai vissuta con particolare tristezza.
Gli alberi che si spogliano, la natura che si addormenta, il cielo spesso sordido, sono la metafora della vita che si spegne. Ma la gioia che trapela nell’osservare la natura che si tinge di colori fulgenti fa pensare che la vita continua dopo la vita, che ritorniamo alla terra per poi rinascere nella luce .
Con l’arrivo dell’autunno ci si preparava per la vendemmia. Il vigneto di mio padre era uno spettacolo, l’ha sempre curato in ogni particolare, anche adesso che ha quasi ottant’anni. I filari erano perfettamente allineati, i pampini perfettamente potati, il terreno perfettamente pulito e dal lato esposto a nord si elevava maestoso un filare di pini che fungeva da barriera frangivento…
Anche il giorno della vendemmia era una festa, i nostri genitori solo per quel giorno ci permettevano di non andare a scuola.
Lo scopo era quello di farci divertire più che dar loro aiuto… e lo era davvero!
Partivamo al mattino con il carretto di mio padre, lui guidava e noi tutti dietro seduti tra un contenitore e l’altro salutavamo allegramente le persone che incontravamo per strada. Quando arrivavamo lì, muniti di guanti e forbici cominciavamo a tagliare i grappoli cercando di non farli cadere a terra. Anche lì mentre lavoravamo e mangiavamo qualche chicco di uva cantavamo e scherzavamo.
Finita la raccolta, ritornavamo a casa, dove mio padre si muniva di stivali nuovi di gomma, si calava dentro il tino e cominciava a pestare l’uva. Quello era un lavoro faticosissimo, poi quando acquistarono la macchina per macinarla tutto divenne più semplice. Dopo aver diraspato le uve, eliminato il rachide o raspo e aver pigiato gli acini si otteneva il mosto pronto da fermentare.
Mi ricordo, e ancora oggi è così, che il vino era assaggiato per la prima volta l’otto dicembre, il giorno dell’Immacolata Concezione, da noi chiamato “spricicchiavutti”. È una tradizione che continua anche oggi. L’otto dicembre, molti uomini si ritrovano nelle varie cantine del paese per assaggiare i vari vini e trascorrere un pomeriggio in allegria, il più delle volte poco sobri ma felici.
Un altro lavoro che spesso si faceva durante l’autunno, era l’approvvigionamento della legna per l’inverno. Mio padre andava in campagna, tagliava gli alberi e li portava con il carretto a casa, ma abitando nel centro storico era praticamente impossibile arrivare a scaricate la legna vicino alla legnaia ed era costretto a lasciarla un po’ lontano e insieme la portavamo dentro. Mi ricordo che facevamo a gara a chi ne portasse di più sulle braccia e benché mia madre ci esortasse a non caricarci troppo, io spavalda ne prendevo così tante da riuscire a stento a reggerle, per dimostrare loro che ero forte. Ho sempre cercato il consenso dei miei genitori e ogni occasione era buona per avere la loro approvazione.
Con il sopraggiungere dell’inverno le attività agricole erano sospese e ci apprestavamo a trascorrere l’inverno nell’atmosfera ovattata e candida della neve che a fiotti copriva lentamente le strade. Quando ero piccola, ne cadeva tanta che uscire diventava impossibile e solo raramente mia madre ci permetteva di andare a giocare a palle di neve perché aveva paura che ci ammalassimo.
Quello spettacolo seppur bellissimo per noi diventava una prigionia… questo è il motivo per cui non ho mai amato la neve…
Durante l’inverno si ammazzava il maiale per provvedere all’approvvigionamento della carne per tutto l’anno. Anche questa era un’occasione di festa perché erano invitati tutti i parenti pronti a dare una mano e a riceverla in cambio quando ne avrebbero avuto bisogno.
Che tavolate e che cibo prelibato!
Quando ero piccola, ero una buongustaia e mi brillavano gli occhi dalla felicità quando mi sedevo davanti ad un piatto di pasta condita con il sugo con dentro lo spezzatino di maiale e per giunta insieme a tanta bella compagnia. Mi ricordo che la nostra cucina di circa 20 metri quadrati riusciva a contenere fino a trenta persone. Il desiderio e la gioia dello stare insieme ci facevano superare anche le difficoltà legate alla mancanza di spazio.
L’unica cosa che mi faceva stare male e che trovavo estremamente crudele era il modo in cui veniva ammazzato il povero animale. Di mattino quando mio padre insieme ai fratelli andava a prenderlo nel porcile situato poco lontano da casa e lo trascinavano in un locale lì vicino per procedere all’esecuzione si sentivano le urla di disperazione del povero malcapitato che aveva compreso quale sarebbe stata, da lì a poco, la sua sorte.
Sembrava che dicesse: “Aiutatemi, non voglio morire, abbiate pietà di me”… Io non ce la facevo a sentire e sprofondavo con la testa nel cuscino…
Immaginavo mio padre e i suoi fratelli mentre trascinava il poveretto con il cappio al collo fino al tavolo dove “u ccier”, colui che lo uccideva, affilava bene il coltello prima di infliggergli il colpo mortale.
Mentre il sangue scendeva una donna con un recipiente, lo raccoglieva e lo girava per non farlo raggrumare, in modo da poterlo utilizzare per fare il sanguinaccio, un dolce tipico del mio paese. Del maiale non si buttava assolutamente nulla, tutto era utilizzato, anche il residuo di grasso che rimaneva dopo averlo sciolto e pressato; insieme alla potassa e alle essenze profumate era usato per preparare il sapone che serviva per fare il bucato.
Questi sono i miei ricordi legati al susseguirsi delle stagioni. Sono felice di aver avuto la possibilità di crescere in una famiglia come la mia che ha posto alla base del suo vivere i valori dell’umiltà, della modestia e della semplicità. Quando si è bambini, non si riesce a cogliere tutta la bellezza che ne deriva, ma la vita, le esperienze negative e questo mondo che si evolve – anzi, oserei dire “involve” – verso un modus vivendi che fonda le sue basi su valori futili e opportunistici, mi fa desiderare di tornare indietro nel passato, per vivere una vita a contatto con la natura, accanto a persone dall’animo puro, il cui unico scopo è gioire e condividere la bellezza che ci circonda.
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