Articolo pubblicato su IUA n° 1, Anno II, Gennaio 2015
Dopo il Metauro, il fiume che vide la sconfitta e la morte del cartaginese Asdrubale, fratello di Annibale, ad opera dei Romani, durante la seconda guerra punica, il Chienti è il corso d’acqua più importante delle Marche. Anche presso le sue rive avvenne uno storico scontro, quando, nel 1815, Giacchino Murat, sconfitto a Tolentino dalle truppe austriache, fallì nel suo tentativo di mantenere il proprio Regno anche dopo la debàcle di suo cognato Napoleone Bonaparte. Ma lasciamo da parte la storia antica, e quella moderna, per concentrarci sul Medio Evo, quando il Chienti, allora ricco di acque (che oggi gli sono sottratte da vari bacini e impianti Enel), costituiva una risorsa preziosissima sia per le popolazioni residenti che per i mercanti che, lungo il suo corso, discendevano (o risalivano) dai valichi appenninici di Colfiorito e del Cornello, che collegavano, e tuttora collegano, la Valle del Tevere con il Maceratese.
I tratti pianeggianti, vicini al fiume e ai suoi affluenti, erano prevalentemente paludosi e soggetti ad alluvioni, come attestano le cronache: perciò adatti ad ospitare abbazie e monasteri che, se da una parte vedevano assicurata la necessaria tranquillità ai religiosi, dall’altra potevano, con il lavoro assiduo di bonifica (ora et labora), riconquistare alla produttività agricola quei campi. Naturalmente, poi, la presenza di un’arteria commerciale apportava mutui benefici ai monaci (che ricevevano consistenti offerte) e ai viandanti (che si avvalevano dell’ospitalità dei primi).
Così, nel giro di un paio di secoli a cavallo dell’anno Mille, e su siti dove comunque preesistevano edifici di culto più modesti, sorsero qui tre notevolissime abbazie o monasteri: S. Maria al pie’ di Chienti, San Claudio al Chienti, e, infine, nella valle dell’affluente Fiastra, l’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra.
Venendo dall’Adriatico, cioè da Civitanova Marche, si incontra per primo il Monastero di S. Maria al pie’ di Chienti, il cui nome intende significare (“al pie’ “) che ci troviamo presso la foce del fiume.
Del complesso monacale si è oggi conservata solo la chiesa, che sorge isolata nel piano E’ senza dubbio uno dei monumenti più belli e più suggestivi della regione: fu eretta in forme romaniche nel sec. IX (ma c’è chi la fa risalire addirittura a un’iniziativa di Carlo Magno che, come vedremo, da queste parti è considerato di casa), poi più volte rimaneggiata. La semplice facciata risale al sec. XVII, e bisogna proprio dire grazie all’architetto, che l’ha progettata, in pieno Barocco, rispettando l’essenza del Romanico. Esternamente, comunque, è la parte absidale, tripartita in absidiole, a richiamare l’attenzione, poiché segue uno schema “nordico”. Si entra nell’interno e si rimane immediatamente impressionati, incuriositi, estasiati: la basilica è a tre navate e su due piani: un po’, per fare un esempio conosciuto da molti, come la chiesa di San Miniato al Monte, a Firenze. Questa sopraelevazione è da attribuirsi probabilmente a un rifacimento quattrocentesco, ma il fascino della costruzione senz’altro ne beneficia. La navata centrale si apre fino al tetto a capriate, per poi interrompersi in un basso presbiterio a quattro navate , attorno al quale gira un deambulatorio con tre cappelle radiali absidate. Per salire al piano superiore, s’apre a destra una stretta scala . Sopra ci sono il presbiterio e gli ambulacri riservati ai monaci. Qui, nell’abside vera e propria, le pareti erano coperte di affreschi, alcuni dei quali sopravvissuti: nel catino della parte absidale, un imponente Cristo Pantocrator ci osserva, inserito in una “mandorla” e affiancato da Giovanni Battista e dalla Madonna della Misericordia. La quasi assenza di prospettiva e la struttura degli affreschi ci fanno pensare a un periodo prerinascimentale (sec. XIII-XIV), ma più recenti studi sono propensi a spostare la data di esecuzione al ‘400. Tutto è possibile; certamente l’impressione è quella di trovarsi dinanzi a una testimonianza di spiritualità ancora medievale. Ridiscendendo al piano inferiore, ammiriamo un grande crocifisso ligneo del Quattrocento. Usciamo: ci attende, a pochi chilometri, l’altrettanto originale Abbazia di San Claudio al Chienti.
L’architettura di San Claudio estremizza ciò che abbiamo appena osservato in Santa Maria: qui ci troviamo di fronte a due chiese interamente sovrapposte di uguali dimensioni, ognuna con facciata e portale suoi propri. Il complesso, romanico, a pianta centrale, si può ben dire molto antico, almeno nelle sue origini. Nel luogo dove sorgeva la romana Pausulae, che fu distrutta dalle invasioni barbariche, sorse questo singolare edificio religioso, che fu modificato intorno al sec. XI – XII e restaurato nel ‘900. La facciata è stretta da due torri cilindriche, che ricordano quelle di San Vitale a Ravenna. La chiesa inferiore, che ha ancora funzioni religiose, presenta alcuni affreschi risalenti al sec. XV. Si sale alla chiesa superiore sia per un ampia scalinata esterna che per le due scalette a chiocciola all’interno delle torri. L’interno, che doveva verosimilmente servire per le funzioni vescovili o comunque dell’alto clero, è ora pressochè vuoto e destinato a un ruolo culturale.
San Claudio ci riserva però una sorpresa. Di fianco all’entrata della chiesa inferiore vi è una cappella, dove una grande lapide, all’apparenza nuovissima, reca una scritta in latino. Con stupore traduco che questo è il luogo dove è stato sepolto nientemeno che Carlo Magno! Ma come! E la tomba monumentale nella Cappella Palatina di Acquisgrana, di chi custodisce i resti? Mi destreggio tra fascicoli vari e Internet per risolvere l’enigma. Apprendo che alcuni decenni fa fu rinvenuto, sepolto presso l’altare di San Claudio, il corpo di un uomo che, dallo spadino che portava al fianco e da altri indizi, poteva essere di stirpe regale. Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che si tratti delle spoglie dell’Imperatore Ottone III, altri, sulla base di una teoria ancor più recente, non solo suppongono che qui sia stato sepolto il fondatore del Sacro Romano Impero, ma addirittura che questa sia la vera Acquisgrana! Non ho letto il libro che sostiene tale, se mi consentite, un po’ singolare teoria, e quindi non mi pronuncio. Certo è che Carlo Magno, come prima sostenevo, da queste parti è molto popolare! (Per saperne di più sul “caso Carlo Magno”, leggi l’approfondimento: “Una precisazione su Carlo Magno, Acquisgrana e la Chiesa di San Claudio di Chienti” di Gianni Marucelli).
Ultima tappa del nostro itinerario, l’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra. Come indica chiaramente il nome, vennero a fondarla dei monaci benedettini, milanesi, forse guidati da quel San Bernardo che doveva essere davvero indaffarato, oltre che a edificare monasteri, a cercar di riformare la Chiesa, promuovere la riconquista e la difesa della Terrasanta e fondare, o almeno scrivere la Regola, dell’Ordine Templare. Comunque, si sa addirittura il giorno in cui giunsero i santi monaci: il 29 Novembre del 1142. In realtà, qui esisteva già un monastero benedettino, risalente al IX secolo, ma la generosità di Guarnerio II, duca di Spoleto e marchese di Ancona, permise all’Ordine di rifarlo nuovo e ben più imponente, in quello stile gotico cistercense che non ha molti altri esempi nell’Italia centrale (se si esclude l’Abbazia di San Galgano). Attorno, c’era una palude malsana che fu bonificata dal lavoro dei religiosi. Al giorno d’oggi, l’atmosfera mistica di quei tempi è ben lontana: qua intorno pullulano le comitive, di ragazzi in gita scolastica, di turisti, di conferenzieri presso la Fondazione Giustiniani Bandini che ha qui sede. Questa apparenza “laica” ha anche una ragione storica: per ben due secoli, dopo la soppressione dei Gesuiti che l’avevano ereditata dai benedettini, il complesso fu proprietà di privati (i Bandini). Solo da qualche anno i monaci sono tornati.
Comunque, a parte un po’ di confusione, l’Abbazia è veramente splendida. L’interno, spartito in tre navate, con archi a tutto sesto sorretti da capitelli scolpiti dagli stessi monaci su materiale tratto dalle rovine dell’antica Urbs Salvia, è vastissimo Della decorazione ad affreschi, che un tempo doveva occupare gran parte delle pareti, residuano diversi dipinti, databili tra il sec. XIV e il XVI.
L’altare è costituito da un’antica ara pagana, “risacralizzata” scolpendovi una croce. Accanto alla chiesa, diversamente dagli altri edifici da noi presi in esame, esistono ancora le strutture del monastero. Particolarmente notevole è il chiostro del Quattrocento, tutto in laterizio. Interessante la Sala delle oliere, dove si conservava l’olio e dove ora è situato un piccolo antiquarium, che presenta reperti archeologici provenienti dalla romana Urbs Salvia, già citata. Vi è anche, presso l’antica foresteria, un Museo della civiltà contadina. Intorno all’abbazia, è stata istituita una Riserva naturale, circa cento ettari coperti da un bosco planiziale, relitto di quella che doveva essere la vegetazione arborea in un tempo lontano. Se non fosse per la pioggia battente, faremmo volentieri un giro per i suoi sentieri. Sarà per un’altra volta.
Articolo e fotografie © Copyright Gianni Marucelli 2014 – Articolo apparso su IUA n° 1, Anno II, Gennaio 2015
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Marche: Tre Abbazie in riva al Chienti… e un cadavere da identificare by L'Italia, l'Uomo, l'Ambiente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.