di Gianni Marucelli
Son quindici secoli che il fortilizio domina il porto di Salerno, dall’alto del colle Bonadies. Lo fece costruire, al tempo della guerra fra Goti e Bizantini, il condottiero dell’esercito di Costantinopoli, Narsete, nelle forme di un’alta torre.
Vi mise poi mano il principe longobardo Arechi II, di cui il castello porta il nome, ma soltanto per farne il vertice di una cinta muraria triangolare, difficile da espugnare, che racchiudesse la cittĂ . Nel caso che gli eventuali invasori fossero riusciti, sbarcando sulla costa, a sfondare la prima barriera, i difensori si sarebbero ritirati sulle aspre pendici del colle, e lì, in posizione dominante, avrebbero potuto vendere cara la pelle. In realtĂ , non ci fu mai bisogno d arrivare a tanto: la cittĂ fu presa sì, ma per fame dopo un lungo assedio, dal normanno Roberto il Guiscardo, che fece onore al suo soprannome (significa “l’astuto”). Però, nĂ© durante la dominazione normanna, nĂ© sotto quella, successiva, degli imperatori svevi, la primitiva Torre (o Turris Major, come viene chiamata in documenti dell’epoca) subì la trasformazione in vero e proprio castello. Solo dopo la conquista dell’Italia meridionale da parte degli Angioini, la costruzione viene ampliata e restaurata (siamo nel 1274 e le fonti riportano un dettagliato preventivo dei lavori necessari coi relativi costi, che reca anche i nomi dei Mastri carpentieri e fabbricatori cui fu affidato l’importante compito). Quando al dominio dei Francesi si sostituì quello degli Aragonesi, il castello raggiunse il massimo sviluppo, divenendo sede non solo della guarnigione, ma soggiorno di signori di un certo rango. Ed è in questo periodo che le prigioni delle fortezza vennero frequentemente utilizzate per rinchiudervi (e magari torturarvi) prigionieri politici e comuni. Al tempo del re Ferrante d’Aragona, qui si consumò anche l’assassinio del cardinal Giovanni, figlio del re, che era ospite di Antonello Sanseverino, signore della cittĂ .
La scorta del prelato fu eliminata nelle segrete, mentre al Cardinale venne offerto un rinfresco trattato con un veleno a lento effetto. Non contento di tutto ciò, Antonello informò l’ospite di quanto gli stava accadendo: “Così come perirono i tuoi amici, uscirai di vita pure tu in pochi giorni, e ciò perchè tuo padre ha voluto conculcare tutti noi.” Dopodichè lo lasciò tornare a Roma dove in effetti morì un mese appresso . Come si può facilmente intuire, con tanto padre, il delitto e l’offesa furono lavate col sangue. Tutto questo accadde nel 1485, quando le difese del castello si stavano adeguando alla nuova realtĂ delle armi da fuoco, con l’apertura, nella seconda cinta muraria, di aperture (ancora esistenti) per l’uso dei fucili e delle spingarde. Ma, nel corso del sec. XVI, il castello di Arechi perdette pian piano la sua funzione difensiva: anche se i Marchesi di Sanseverino vi stabilirono qui una delle loro residenze estive, il fortilizio subì una inarrestabile decadenza che lo ha fatto giungere ai nostri giorni nello stato di vera e propria rovina, prima che l’acquisizione da parte della Provincia di Salerno e un’opera lunga e complessa di restauro non lo restituissero al godimento dei cittadini e dei turisti.
Siamo andati a visitarlo percorrendo la strada, stretta e in forte ascesa, che sale direttamente dalla tangenziale della cittĂ , un’arteria di traffico intenso, e immergendoci subito in una quiete campestre quasi inattesa, come inattese sono le tre o quattro mucche che scendono tranquille, fortunatamente tenendo la propria destra. Dal parcheggio uno stradello piastrellato tra la folta macchia ci conduce direttamente alla base della cinta muraria; a destra si diparte un altro sentiero, un percorso naturalistico che porta fino a un’altra torre medioevale, chiamata la Bastiglia, che purtroppo non avremo tempo di raggiungere. Ciò che immediatamente colpisce è il vasto panorama sul Golfo di Salerno: proprio sotto di noi, il moderno porto commerciale con le navi mercantili e i traghetti provenienti per lo piĂą dalla Sicilia, e le piĂą piccole imbarcazioni turistiche che partono per Amalfi, Positano e le altre localitĂ della Costiera Amalfitana, che ha inizio proprio qui, alla base dei Monti Lattari. Secoli addietro, la linea di costa era molto piĂą arretrata, e la Turris Major doveva dominare gli approdi come un falco che osservi minaccioso la possibile preda.
La prima parte della visita ci porta a fare il giro completo delle seconde mura, un ampio cerchio in cui si aprono le feritoie per i balestrieri e gli archibugieri, e le postazioni perle spingarde. Entriamo poi nel Mastio vero e proprio, attraverso la porta sormontata da torretta merlata che fu costruita in epoca aragonese. Nel primo cortile interno, tavole ben apparecchiate attendono una comitiva di turisti per l’ora di pranzo. Qui è situato anche il bar-biglietteria e il piccolo museo che conserva gli oggetti (in prevalenza ceramiche, ma anche tesoretti di monete di varie epoche) che sono stati trovati durante i lavori di scavo e di restauro. Si sale quindi all’interno dell’arce, nella parte dove è inglobata anche la bizantina Turris Major.
Il percorso è arricchito non solo da cartelli esplicativi, ma anche da grandi schermi attraverso i quali si possono visionare i video realizzati sulla storia e le caratteristiche del castello. Non mancano nemmeno gli “effetti speciali” sòn et lumière, che mettono in evidenza un’attivitĂ vitale per chi risiedeva nella fortezza: la raccolta delle acque meteoriche in grandi cisterne. Nel cortile superiore, la cosiddetta “piazza d’arme”, fa bella mostra di sĂ© una acquasantiera di notevoli proporzioni. Di poco al di sopra si notano, ben visibili, i forni di cottura. Se il nostro occhio fosse un po’ piĂą allenato, riconosceremmo meglio la stratigrafia della costruzione, con le aggiunte e i rifacimenti delle varie epoche, in particolare quella angioina e quella aragonese: riusciamo comunque a individuare un tratto della originaria struttura bizantina, in opera quadrata.
Dalla sommitĂ della torre si doveva godere, e ancor oggi si gode, di una prospettiva immensa sia sul mare che sui monti che si innalzano ad oriente, sia sulla costa a sud, fino al Cilento. Comprendiamo come questa posizione sia stata strategica, per il controllo della navigazione lungo la costa e dei movimenti sulle vie di terra. Ci viene spontaneo chiederci quale fosse la vita delle guarnigioni e dei Signori che, in alcuni periodi, vi hanno abitato, come i marchesi di Sanseverino.
Qualche risposta ci viene dagli oggetti, provenienti dagli scavi, che sono custoditi nel piccolo museo: ovviamente alcuni sono di pertinenza militare, come le punte di freccia per arco e di dardo per balestra, che però sicuramente sono stati utilizzati anche per la caccia; a questa attività , che probabilmente era più ludica che di comune vettovagliamento, si riferiscono anche i resti di animali quali il cervo, il daino, il cinghiale. Altri frammenti di ossa attestano che si consumavano carni caprine e ovine, probabilmente di bestie allevate in loco, mentre i bovini venivano forniti già tagliati in quarti. La carne suina serviva invece a preparare prosciutti, con maiali uccisi nel primo anno di vita. Polli, oche e conigli, nonché le tartarughe di terra, completavano la dieta: una dieta proteica, come si può notare, propria dei soldati. Una curiosità gastronomica: la frammentazione dei resti scheletrici degli animali è forse da connettersi alla preparazione della galantina, gelatina molto frequente nei trattati culinari dei sec. XIII e XIV. La galantina serviva per guarnire i piatti, magari colorandola con spezie, ma anche per conservare meglio le carni e il pesce.
L’abbondanza di ceramiche da tavola, anche di buona fattura, e di bicchieri e calici in vetro, risalenti al tardo medioevo e al rinascimento, prova che almeno i comandanti e i signori amavano la tavola ben apparecchiata e i banchetti: del resto, quassĂą, a parte la caccia, gli svaghi non dovevano essere numerosi.
Mentre lasciamo il castello, incrociamo la turba di turisti dell’Europa orientale, cui evidentemente sono destinate le tavole apparecchiate nel cortile: di fronte alla loro orda gentile, il possente maniero cede senza fare resistenza.
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